La tela

Guernica macchiata di sangue 03

Ho buttato a casaccio qualche colore sulla tela imbrattata di bianco

come la biacca sui muri dove sono stati fucilati i miei amici,

uccisi per la mia stessa bandiera

prima che io fossi nato.

Ora che tutti comprendono quanto sia folle il dolore, nessuno più muore

fucilato, inchiodato a una sedia o trafitto

alla freddezza di un muro.

Basta ucciderlo piano, spingendolo tra le lunghe corsie

d’enormi mercati, davanti gli schermi giganti

che alimentano fiamme nelle oscure cataste dei desideri

e nascondono dietro le spalle la nera voragine di chi muore senza il lavoro.

Qualcuno dona la morte con la crudeltà di un vulcano che palpita

stringe le dita di lava, sparge raffiche rosse

di carne e di sangue dai corpi spremuti

come arance gonfie di sole.

Accompagna il suo dono con dirompenti esplosioni

di ferro e di fuoco nelle strade e ovunque vi sia

un uomo o un bambino musulmano o cristiano vergine o incinta.

Che siano poveri o ricchi

atei comunisti fascisti

quel che conta è che abbiano intorno compagni

e portino insieme la stessa bandiera anche senza saperlo

dentro una chiesa o moschea o danzando sui palchi o attendendo sereni

che li porti via con dolcezza la morte.

Ma questo è solo un mio ricordo di ieri

perché adesso qualcuno dona la morte con più affetto di quanto temiamo.

Con le sue braccia di gomma lascia cadere la maschera d’uomo

si accinge a guidare i cavalli che fiutano lungo la strada il profumo di vita

 e gli sguardi innocenti nel sereno brusio della gente.

Con le sue braccia di gomma

abbraccia chi deve morire, lo stringe al suo petto di lamiera e di vetro

gli stende sul corpo un rumore di morte.

 

Non ho voglia di piangere sul sangue che è schizzato sui muri.

 

Butto a casaccio qualche colore per ridare la luce alla tela imbrattata di bianco

come la biacca sui muri dove sono stati uccisi i miei amici.

 

Faccio appello all’ironia di Pablo Picasso per ottenere il suo perdono per lo scempio da me fatto alla sua opera.

Ma ogni epoca ha un suo strumento per portare la guerra e provocare stragi. Io ho tentato di adeguare visivamente questo strumento.

Dietro il sipario

 

Mariella lo giudice 02

Mariella Lo Giudice , Attrice di teatro (1953-2011) (Foto di Sandro Nicolosi)

Dietro il sipario che si chiude lentamente

al mite soffio della tua memoria

come una lama che vuole separare

dalla scena la platea sommersa dalle acque nere

dove sprofondiamo nel suo fondale oscuro

scompaiono lontani i volti delle tue compagne

le maschere dei sogni i desideri inappagati.

Hanno vibrato dentro la tua anima con sussurri e urla

t’hanno segnato il viso con risate e pianti.

Hai seminato di parole acuminate

come punte di diamanti che s’addensano in ricordi

l’immenso mondo di emozioni e sentimenti

tutta la nostra vita che non vedremo più sbocciare

dalle tue labbra come petali vermigli.

Nel tuo corpo il morso

lento e tenace di demoni o di dei

ha stravolto ogni tuo slancio

ha sgretolato ogni presagio dei tuoi giorni.

Ora a sipario chiuso la tua anima

nel silenzio della platea trova la pace,

quieta le tue mani, come lune spente

le poggia sul tuo petto.

Ti scivola sul corpo la luce del tramonto

ti riveste amorosa della sua veste rossa

sulle guance ti cosparge d’una polvere bianca

sfiora le tue tempie con un bacio.

All’orizzonte il sipario della notte sta in attesa.

Anche il silenzio attende sulle tue labbra chiuse.

 

Ah, questa veste come ti porta via!

Come carezza il vento i tuoi capelli rossi!

 

Ecco, una voce canta il senso dei tuoi sogni

e culla dolcemente di memorie la malinconia.

 

Di quanti filtri

Marina si domanda “quando / saremo noi / fuori dai lacci?”. La domanda, rivolta anche a noi, non può che attendere una disperata (o rassegnata) quanto negativa, risposta, che già Marina stessa sente dentro di sé con lacerante certezza.

poesie e altro

Di quanti filtri
pellicole adesive trasparenti
maschere d’argilla o creta
rapprese ai bordi, crepate con fulmini
in trasversale sull’anima,
di quanta cartapesta e fondotinta
sul volto abbiamo bisogno
per sentirci esistere
e calamitare l’altrui attenzione –
quante reti comprimono
gesti, pensieri, parole
in quali cavità la mente cola
corpo e spirito trafugati
da illusioni precarie
coazioni a ripetere
serialità stampigliate
di stereotipi –
quando
saremo noi
fuori dai lacci?

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Gelosia

gelosia eduard munch

Edvard Munch, Sjalousi (Gelosia), 1895

Da quale mondo viene e quale lingua parla

questa compagna che mi giace a fianco

con il suo sguardo viola e l’anima di luce.

Ride cantando e muove nella danza

lenta le braccia dimenando i fianchi

e lascia che m’inebri del suo corpo

come di nube bianca che mi avvolge.

 

Forse non pensa, forse le parole

che lei ripete come una preghiera

sono soltanto il fiato caldo di un incontro

nell’infingibile abisso dell’amore.

Mi carezza gli occhi mi bacia sulle labbra

mi si struscia addosso piega la mia fronte

sopra il tepore bianco dei suoi seni.

 

Io guardo là dove mi dice di guardare

mentre mi scorrono sul viso lacrime improvvise

e un oscuro enigma scintilla nei miei occhi.

Mi volto indietro al grido che inatteso

sfugge dal mio cuore freddo come maschera.

 

In quel voltarmi indietro cerco la memoria

che spezzi il cerchio da cui mi sento avvinto.

 

L’amante che mi abbraccia silenziosa

resta sveglia nel cuore della notte.

 Gelosa mi contorce le budella

con il veleno aspro dell’amore

inietta nel mio sangue il male atroce

che mi giunge al cervello e mi stordisce.

Mi scava nella pelle divora la mia carne

e lascia i sentimenti

volare via come colombe affrante.

Luna

Ruben Jimenez Notte su Praga

foto di Ruben Jimenez, Praga

Deboli stelle rade in questo cielo giallo
smaltato dai lampioni della città assordante.

Il fiume scende lentamente tra le alte mura grigie.

E tu luna che appari mite negli angoli più oscuri
ormai non trovi asilo che in ombrose memorie.

Spegni la tua inutile faccia bonaria
sulle dimore dove ronzano fragili speranze
dentro cuori di vetro, freddi come mai

tu sei stata, luna

 

L’attesa

aleksei makarenok, Olga.png
Aleksei Makarenok, Olga
A colei che diffonde in rete
con dolcezza il Canto delle Muse
(dedica del traduttore)

Il cuore ha spalancato adesso i suoi battenti.

Ti attende, o mia Adorata: ma verrai?

Verrai oggi o domani, poco importa!

Sarà più dolce il giorno se vicino o lontano?

 

Non è inutile male quello dell’attesa!

Il desiderio antico lo mantiene vivo.

La felicità inattesa sopraggiungendo incanta,

svanisce non appena ne gustiamo il senso.

 

E dichiariamo inutile l’essenza delle cose

perché non siamo ad esse a sufficienza pronti:

insensato respingere un mazzo di rose fresche

accusando il profumo che non abbiamo respirato.

 

Un’ora, solo un’ora di puro godimento

purché Dio mi conceda un quarto di secolo

con un sogno interiore e una giovane speranza

per riflettere su di lei e per capirla a fondo,

 

per stabilire l’attimo supremo decisivo

in cui nulla si perda e tutto, anche la briciola

più piccola, sia goduto e il tempo se ne vada

rapido via portando solo quel che è scialbo!

 

Un’ora basterà. La vita avrò vissuto

piena come un fiume nel suo corso migliore

colma di un’ora sola più che di giorni folli,

un’ora, essenza e frutto sostanziale del vivere !

 

Il cuore ha spalancato adesso i suoi battenti.

Ti attende, o mia Adorata: ma verrai?

Verrai oggi o domani, poco importa!

La mia attesa d’amore farà in modo che

la felicità lontana diverrà più dolce.

(Albert Louzeau, Intimitè et autres poémes, Traduzione di Marcello Comitini)

L’ATTENTE

Mon cœur est maintenant ouverte comme une porte.

Il vous attend, ma Bien-aimée : y viendrez-vous?

Que vous veniez aujourd’hui ou demain, peu m’importe!

Le jour, lointain ou proche, en sera-t-il moins doux?

 

Ce n’est point un vain mal que celui de l’attente!

Il conserve nouveau le plus ancien désir.

L’inattendu bonheur dont la venue enchante

Passe; à peine en a-t-on su goûter le plaisir.

 

Et l’on s’en va criant l’inanité des choses,

Pour ne s’être jamais aux choses préparé;

Insensé, qui repousse un frais bouquet de roses,

Accusant le parfum qu’il n’a pas respiré.

 

Une heure seulement de pure jouissance,

Pourvu que Dieu m’accorde un quart de siècle entier

De rêve intérieur et de jeune espérance,

Pour méditer sur elle et pour l’étudier,

 

Pour ordonner l’instant suprême qui décide,

Pour que rien ne se perde et que tout soit joui

Jusqu’à la moindre miette, et que le temps rapide

S’envole, n’emportant que de l’évanoui!

 

Une heure suffira. J’aurai vécu ma vie

Aussi pleine qu’un fleuve au large de son cours,

L’ayant d’une heure, mieux que de jours fous, emplie;

D’une heure, essence et fruit substantiel des jours!

 

Mon cœur est maintenant ouvert comme une porte.

Il vous attend, ma Bien-Aimée: y viendrez-vous ?

Que vous veniez demain ou plus tard, il n’importe!

Mon attente d’amour fera de telle sorte

Que mon lointain bonheur en deviendra plus doux.

(Albert Louzeau, Intimitè et autres poémes, Edition Les herbes rouges, Montreal, 1997)

I vagabondi

i vagabondi

Leonardo, L’ultima cena, mia è l’elaborazione grafica.

Resta soltanto il silenzio delle sedie in disordine intorno alla tavola
il cibo lasciato a metà dentro i piatti
e un vivo calore di dita sul metallo delle posate.
Il bagliore bianco della tovaglia tra i calici rossi di vino
come gelidi fiori d’anemoni alle carezze del vento
attende che tornino gli ospiti verso quel sogno
più vasto e vano del consumarsi dei giorni.
Alle pareti gli specchi pieni di ombre
moltiplicano il vuoto lasciato dai vagabondi
che senza pace sono fuggiti in cerca di fiumi tranquilli
e prati su cui adagiare la loro inquietudine.
Senza cedere il passo ai segni del tempo trascorso
ridevano allontanandosi.
Chi ha voltato le spalle chiuso in sé stesso
chi sottobraccio all’amata ha strappato le proprie radici
chi guardando il tenue orizzonte lontano
ha ripensato al monte scalato in silenzio
in solitaria fatica e al dolce tormento
della pioggia sul volto a bruciare le pupille e il fiato.

Resta soltanto la tavola pronta dell’ultima cena mai terminata
per raccogliervi intorno i vagabondi che mai cederanno al passato
il profumo dei fiori di campo carezzati dal vento.

Tornerò in quella stanza mi guarderò intorno. Vedrò negli specchi
il gelo che appanna le ombre, respirerò l’inebriante
profumo del vino e le inafferrabili distanze del tempo.

Siederò a quella tavola solo.