Un’altra mia traduzione sull’elegante blog della cara amica
Titti de Luca
Mese: novembre 2016
Il volo
Poiché non ho grandi pretese e i versi miei
non s’innalzano in vero più di tanto,
impantanati nell’oscuro incubo
dell’anima codarda smarrita nel suo pianto,
potrei tentare di spiccare il volo
lasciandomi cadere da una ripa
che orrida scoscende sino al fiume.
Strappati via dal vento i miei vestiti,
forse nel volo a precipizio in basso
verso l’alvéo che fa dell’acque un grembo,
con l’acre sentimento della morte
apprenderei che i sogni in controluce
riproducono i gesti quotidiani,
la chiave per rileggere il destino,
che condanna ciascuno alla sua sorte.
Vedrei mio padre ubriaco di sogni
scendere lentamente scalini colorati
e mia madre selvaggia donna di un paese
dove la fierezza spalanca le sue ali
dove la terra è “sangue del mio sangue
e i figli miei son carne della carne”
Vedrei la vita che non ho vissuto
scorrere al vento come un treno in corsa
le porte a cui bussai che non si aprirono,
le case disadorne che ospitarono
le mie domande, le mie fughe,
i ricordi che in polvere si sperdono
accecando di me quel che è rimasto indietro.
Vedrei Mirù, ricciuta dai capelli biondi
donarmi il fiore dei suoi sedici anni
con la dolcezza di una dea greca
che vino e miele offre ai suoi amanti.
Spinta poi al di là dei miei silenzi incomprensibili
si è tramutata in vento di dolore.
E te vedrei, Pia dei miei sogni,
quando opponesti fredda la tua mano
alla mia guancia, al mio cuore, alla speranza.
Il giovinetto antico che sfidava
l’inalvearsi monotono dei giorni
vide l’amore divenire irraggiungibile
come sole vaporoso nel tramonto.
Ora è un vecchio che non sa più vivere,
che ritorna nel grembo della terra
come un frutto dimenticato e ormai maturo
piomba sul greto tra spumeggi amari.
Querce

Marcello Comitini, elaborazione grafica
Simili a eterne vecchie
contorte dall’inverno
vi consolate al sole,
pallide d’una primavera
che vi sfiora.
Chiuse nell’orizzonte
di foglie sempreverdi non vi assale
vertigine né brivido.
Non vi rapisce il vento
né un timido germoglio
né uno scarto che muti
la vostra uguale vita,
o un fiore inaspettato
nella monotonia del verde.
Il tempo sopportate
lento e indifferente.
Della sola stagione d’autunno,
la pace malinconica portate.
In che stagione siamo

Herbert List, Plaster Masks
Il fantasma della pioggia vela l’orizzonte
e un vento caldo che stordisce
lo trasporta innanzi ai nostri occhi.
Ci vola incontro come sciame d’api
nella trama fitta delle lacrime
che ci rigano le guance.
Ci guardiamo intorno. Scopriamo d’ogni cosa
l’afa soffocante e il grigio
e quella grande quiete morbida
che sale dalla terra gonfia d’erba.
E su nell’infinito grigio delle nuvole
squarci di luce come bagliori incerti
d’una città sommersa dalle acque.
Inutilmente ci chiediamo
con le mani al viso in che stagione siamo.
La sentiamo in fondo al cuore,
la stagione dei morti
la stagione dei cadaveri scoperti
dalla pietà dei vivi sotto enormi pietre bianche
e il pallido lucore di lumini indifferenti e inerti.
La stagione in cui guardiamo al mondo
nell’afrore umido del vento
come se non ci appartenesse,
come se non avessimo
altre stagioni che ci attendono.
Parole dei poeti

Heingki Koentjoro, mangrove symphony
Le parole dei poeti sono come le rose:
profumano i crepuscoli delle città
quando brillano le luci delle vetrine
e il cuore si nasconde in angoli bui.
Parole come canne sullo specchio dello stagno
dove ninfee galleggiano in acque serene
e corpi che si uniscono bacio contro bacio
in una sonnolenta nenia del cuore.
Versi che si nutrono di capelli di mani
di sogni abbandonati di lacrime spinose
rose che scendono dagli occhi sulle guance
abbracciano condannano fanno naufragare
lanciano segnali da naviglio a naviglio
nel mare in tempesta di lenzuola rotte.
E ci sono versi che non appartengono ai poeti
versi sporchi di ferro corrosi dalla ruggine
stipati in magazzini lungo porti abbandonati
dove non attraccano che poveri battelli
colmi di stanchezza e di piedi scalzi.
Parole di chi cade dentro buchi sudici
senza morire né vivere d’inedia,
cani da strada maltrattati poveri,
vecchi cacciati dalla loro vita
giovani che chiedono giorni in cui sperare.
Versi che si scrivono da soli
sulle lavagne sporche dei sobborghi.
Versi che si arrampicano lungo gli edifici
e sui tetti più alti tagliano nello spazio
le proporzioni esatte del bene e del male.