La Primavera

Primavera con occhi

Ricominciare, nascere di nuovo, eccolo
cosa diceva il Maestro, quello che noi
non avevamo capito. Noi guardavamo
il ventre della terra, le nuvole, il cielo

e restavamo ciechi, mentre ritornava
al suo esatto posto la rondine, riprendeva
possesso del vento. E noi desiderosi di partire
da così lontano, noi restiamo sulla soglia

senza sapere dove andare, come prigionieri
d’una strada invisibile e della paura di perdere,
piombando nella luce d’aprile,
il gusto dell’acqua, il profumo delle ombre

e il piacere di sempre rimandare a domani.

Guy Goffette, da “Il pescatore d’acqua”. (traduzione di Marcello Comitini)

 

Printemps

Recommencer, naître à nouveau, voilà
ce que disait le Maître, ce que nous
n’avions pas compris. Nous regardions
le ventre de la terre, les nouages, le ciel

et demeurions aveugles, tandis que l’hirondelle
revenait à sa place exacte, reprenait
possession du vent. Et nous qui de si loin
désirions partir, nous restons sur le seuil

sans savoir où aller, comme prisonniers
d’une route invisible et de la peur de perdre,
en plongeant dans la lumière d’avril,
le goût de l’eau, le parfum des ombres

et le plaisir de toujours remettre à demain.

Guy Goffette, “Le pechêur d’eau”, Gallimard , 2007

Dafne non udí voce piú bella

Apollo e Dafne

Credo che non occorra dire nulla di questa scultura.

I versi sono tratti dalla lunghissima lirica “L’oleandro” composta dal d’Annunzio nella notte del 2 agosto del 1900 e narra il mito di Dafne che fugge inseguita da Apollo.
    Mentre Dafne fugge invocando l’aiuto del padre (il dio-fiume Peneo), in lei s’insinua con dolcezza il desiderio di essere posseduta dal quel dio giovane e bello che la insegue.
    Contrariamente a quanto narrato dal mito, per d’Annunzio non è Dafne a chiedere la metamorfosi. È proprio lei che, accortasi di quel che sta accadendo al proprio corpo, invoca Apollo di liberarla, di prenderla, di strapparla via dalla terra.
    Dalla lunga lirica (che vale la pena, secondo me, leggere per intero) ho estrapolato soltanto i versi in cui il Poeta descrive l’intima titubanza di Dafne tra il desiderio di salvaguardare le propria castità e quello di cedere alle voglie del suo cuore.

III

[…]

Chiama ella il padre suo con grida vane.
“Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!”
E corre, ed ansa, e le sue gambe lisce
crescon la furia del desio predace.

“O gran padre Penèo, perduta sono,
ché mi si rompono i ginocchi. Salva-
mi dalla brama del veloce fuoco
che ora mi giunge, ecco, ecco, ora m’abbranca!”
Ma il dolce sangue suo in altro suono,
la sua bellezza in altro suono parla.
Ed ecco ella s’arresta, chiude gli occhi
E trema e dice : ”Or ecco mi abbandono”

Una gioia s’aggiunge al suo terrore
ignota che il divin periglio affretta.
Tremante e nuda dentro la chioma ode
la vergine il tinnir della faretra,
sente la forza del perseguitore,
vede l’ardor pe’ chiusi cigli e aspetta
d’esser ghermita, e piú non chiama il padre.
Ma il dio la chiama: “Dafne, Dafne, Dafne!”
Ed ella non udí voce piú bella.

 

Gabriele d’Annunzio, da L’Oleandro, in Alcione, Einaudi, 2010

La rondine del cieco a Venezia

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Gabriele d’Annunzio

   

Ho tratto questo brano da un’opera scritta nel periodo in cui d’Annunzio, a causa di un grave incidente all’occhio destro è costretto a letto nell’immobilità assoluta e con gli occhi bendati. Nel buio totale riaffiorano ricordi e si accendono immagini. Il poeta li annota a tentoni su una lunga striscia di carta, che fa scorrere tra le dita.
    Il titolo del brano è stato assegnato da me.

« Sono arrivate le rondini » dice la Sirenetta entrando nell’ombra, con un accento dominato che par l’ombra del grido.
Penso, non so perché, al suono dell’antica mia voce quando, fanciullo, sollevavo il coperchio ferrato del pozzo e, sporgendomi dalla sponda di pietra solcata dalla corda, gettavo un grido verso il fondo ove intravedevo il mio viso nell’acqua che luceva.
Ho negli occhi quel suono d’argento assordito, in cui tremava la levità del capelvenere.
Richiudevo il coperchio con cautela perché l’urto del ferramento non ricoprisse il mio grido segreto.
E mi pareva d’aver imprigionato nel pozzo fresco e cupo qualcosa di vivo come un uccello che seguitasse a svolazzare e a cantare sbattendo le ali contro l’umido mattone.
[…]
Resto silenzioso. Ma un istinto balzante della mia carne stanca imita la rondine veloce.
I suoi minuti occhi selvaggi s’aprono sotto la mia benda.
Entra nella Corte Contarina. Un grido, due gridi. […]
Passò sopra Chioggia.
Volò a San Francesco del Deserto.
Girò intorno al campanile orientale nell’isola degli Armeni.
Si posò un istante nella bocca del Leone su la colonna della Piazzetta, tentata di mettervi il suo nido novello.
Entra nella Corte Contarina, Un grido acuto, un guizzo bianco.
S’abbassa verso i pozzi aridi raccolti entro le inferriate
Poi sfiora le logge sovrapposte con la rapidità musicale di una mano che fa un arpeggio su per le corde di un’arpa scolpita.
Brilla e svolazza intorno agli ultimi balaustri.
Poi la vedo sparire, la sento stridere sotto la volticella
Poi la vedo partirsi a saetta, valicare i tetti, trafiggere l’azzurro.

La odo gridare di dolore, gridare al sole il mio dolore

Gabriele d’Annunzio, Notturno, pagg. 127-128, Mursia, 1995

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      Quanti di noi hanno letto Gabriele d’Annunzio? Credo tutti, almeno perché lo si studia a scuola. Ma forse ognuno di noi risponderebbe che è un poeta superato e soprattutto fascista, come ha da sempre sostenuto la critica letteraria italiana.
Mi permetto di dissentire. Un poeta, anche se politicizzato,raggiunge la sua massima espressione soltanto quando mette da parte la sua retorica ideologica.
La critica oggi inizia a scoprire che d’Annunzio non si è mai accostato al fascismo e che invece Mussolini si serviva del suo nome per fare propaganda. In realtà il poeta era solo un patriota come ai suoi tempi s’intendeva il patriottismo, con tutte le sue conseguenze.
Sarò grato a chi mi dirà se è interessato alla lettura di versi scelti da d’Annunzio.

 

FLORA

FLORAweb

Beatrice Borroni, Flora. 2012

Così mi ami. Carezzando la mia bocca
allontanandoti mi lasci
tra le braccia il tepore del tuo corpo.
Ridono i tuoi occhi. Se mi guardi
tutta la tua bellezza mi sorride.
Se ostinata tieni chiusi gli occhi
in me semplicemente vedi un uomo
uno dei tanti che non vedi
che ti tocca con le labbra sulle tempie
un segnale che ti giunge
da un mondo lontano
dai capricci
di ciò che cambia e si trasforma.
Quando li riapri
tra le mie braccia sembri abbandonarti
guidata dalle immagini sognate
verso l’inverosimile del sogno
di centinaia e centinaia di uomini
che quasi ubriachi ti carezzano.
Così ti amo. Senza ripensare
dove si celano le ombre del tuo esistere
al tuo cuore che batte desiderando l’infinito
alle mani innumerevoli che grondano
del tuo amore che brucia.
Così la tua bellezza ti fa libera e in eccesso
di colori e di vita da me ti fa lontana.

 

Poesia tratta da  Beatrice Borroni Marcello Comitini “Di cremisi e Azzurro – Immagini e poesie”, Caffè Tergeste Editore, 2014 

La lama nell’acqua

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foto di Michael Ackerman

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Il sole sulla lama dell’acqua.
Il colore tenue della ghiaia sul greto grigio del fiume.
Il vento spoglia via le nuvole
dalle cime azzurre delle montagne.
Lo sguardo dell’uomo si smarrisce, la sua voce
gracida come un corvo ferito
immerge nell’acqua le sue mani rosse di sangue.
Il colore tenue degli occhi della donna
guardano l’uomo dal profondo della terra
sembrano desiderose d’una riva
che non hanno neppure immaginato.

Due lune consunte.

Le sue mani bianche nell’impenetrabile
buio della morte
hanno steso su di sé il lenzuolo della luce.

.

Giuditta, vestita ammodino

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Caravaggio, “Giuditta uccide Oloferne”, (1597)

Caravaggio, che di solito , nel nome del realismo, non ci risparmia neppure i dettagli più crudi, mette in scena una Giuditta che, pur essendo da giorni prigioniera nel campo del tiranno assiro, è vestita ammodino, senza un capello fuori posto. Sono le prime ore del mattino. Per tutta la sera precedente Oloferne ha allungato le mani, l’ha fatta ballare, eppure la camicetta è di un bianco smagliante, il viso sano e colorito non accenna a tracce di spossatezza, sforzo o paura. Questa Giuditta non ha nulla della fanatica elogiata dalla Bibbia, la devota disposta a morire.

La Giuditta della Bibbia colpisce Oloferne “due volte al collo”, cioè lo aggredisce da dietro in un moto di furore incontrollato. In Caravaggio invece, Giuditta impugna in tutta freddezza una ciocca di capelli, torce all’indietro la testa di Oloferne e gli recide la gola da parte a parte come si taglia una fetta di torta.
Il volto di Oloferne invece… è vero che l’agonia ammorbidisce anche i tratti più brutali, ma guardatelo bene in viso, se necessario voltando la pagina di novanta gradi, posto che non vi troviate di fronte all’originale a Palazzo Barberini. Coprite tutto il resto, fate caso soltanto a lui:
Caravaggio_-_Giuditta (particolare)
proprio attraente non lo è, lo concedo, eppure non ha nulla della bestialità di un tiranno che ha già sottomesso con le armi tutte le terre dell’Occidente. Se non sapessimo che si tratta di Oloferne si potrebbe anche scambiarlo per un martire, tenuto conto dell’umanità con la quale Caravaggio raffigura di solito i martiri, oppure…

Inaudito colpo di scena: Oloferne si trasforma in vittima e Giuditta in carnefice. “ Ah, pigra bagascia!” mi viene da dirle come Caravaggio apostrofava, nei momenti di malumore, Fillide Melandroni, la celebre cortigiana di Roma che aveva posato come Giuditta: “ stai mozzando la testa di un uomo e non distogli neppure lo sguardo.”

Giuditta è graziosa e non la si potrebbe dipingere altrimenti. È brutale e sadica, ma graziosa. La serva invece che sta nei pressi del letto è resa da Caravaggio simile a un mostro. Rifate l’esperimento. Coprite tutto tranne il viso:
Caravaggio_-_Giuditta (particolare Serva)
le orecchie spropositate che di sicuro hanno origliato dietro a chissà quante porte, il naso informe che per tutta la vita la donna ha ficcato in faccende che non la riguardavano, gli angoli della bocca piegati verso il basso da decenni d’invidia, le palle degli occhi globose e prominenti per l’agitazione. No, un vero angelo, fosse pure un angelo vendicatore, non si farebbe mai accompagnare da una vecchia bavosa che sembra un acconto sul castigo eterno.
Non c’è da stupirsi che all’epoca i devoti avanzassero serie riserve sul cristianesimo di Caravaggio: questa Giuditta è un’eroina alla quale nessun popolo vorrebbe affidare la propria salvezza, tanto meno il popolo di Dio.

(“Giuditta” liberamente tratto da Navid Kermani,  in “Lo stupore e la bellezza”, Marsilio editore, 2017)

Stupore di una luce

stradawebtiralb

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Le nuvole hanno spento nel grigio
l’immutabile faccia della luna.
E’ rimasto l’incerto stupore di una luce
sulla strada bianca di polvere e di anni.
La percorro passo dopo passo
come il vecchio che lentamente avanza
tra le foglie che cadono dai rami.
È di terra il mio viso il mio respiro è corto
e trattiene nel petto un antico dolore.
Il silenzio di quel tronco
che sbarra la fine della strada
m’attrae come lo sguardo
del dio che mi perseguita.