Rivolta

 

Una lirica rivolta ai più diseredati, ai più abbandonati, ai più sfruttati.

Cosa se ne farebbero costoro di parole che non sono le loro?

“Rivolta”: versi che usano le parole più aspre, dal suono più duro che tornano a capo solo per porre in risalto un concetto, isolandolo, affinché la mente del lettore si trovi di fronte a un precipizio che lo faccia riflettere se andare avanti o abbandonare.

Dunque nessun verso dolce in questo poema.

Saremo costretti a guardare dentro noi stessi. con uno sguardo severo, giudicante, senza possibilità di assoluzione.

Leggendo questi versi ho smesso di parlare di me, parlo di loro. E se non parlo di loro, rimane sempre nella mia voce una traccia aspra della loro presenza, del loro contagio, delle loro unghie, della loro umiliazione, della loro confusione mentale, del loro dolore.

Luigi Maria Corsanico

 

RIVOLTA

1

Ho lasciato il mio posto, vecchia tana

nel cuore troppo tranquillo

della città addormentata

e passando scalzo su sputi e cicche

accese e terra e pietre,

coprendo le mie orecchie fra il rumore

di vagoni blindati e pieni

di uomini di donne di fanciulli

soffocati dai ventri stretti l’uno

all’altro, ho cercato i sobborghi

pullulanti di case sudice e vecchie

e di brandelli variopinti a festa

legati a fili di miseria.

Ed ho guardato dentro le finestre,

ho varcato  le soglie come gole

d’infamia, ho rivoltato

il mio sguardo nel buio impenetrabile.

Ho udito lamenti e pianti,

e grida e bestemmie di donne

che sputavano sangue

sul giaciglio di terra.

« Abbiamo ancora da dire troppe cose

per piegare le braccia

e socchiudere gli occhi nell’attesa

della morte dolcissima che sale

su dalle gambe lentamente e il corpo

inaridisce.

Abbiamo da gridarvi troppe cose

coi nostri corpi stesi lungo i muri

a grappoli come mosche appiccicose

sui vostri occhi socchiusi.

Ma non vedete, non udite pietà che domandiamo

movendo appena le labbra.

A chi la colpa? Forse delle vesti

che vi ricoprono il corpo mentre noi

nudi fin dove la vergogna si dibatte

umiliandosi alla vostra pietà,

ascoltiamo i lamenti del compagno

e affrettiamo la morte per rendere

la nostra carne pane, e vino

il sangue che ci fermenta nelle vene.

Non parleremo. Non scriveremo ai muri

grida di libertà e di odio.

Non chiederemo pietà.

Ma chi oserà dimenticare i nostri corpi,

chi oserà guardarci in fondo agli occhi

il vuoto che la fame sbrindella

dentro i ventri?

Voi tremerete come canne

e volgerete altrove il capo passando.

Attenderemo

come rovi cresciuti all’improvviso

o gramigna dei vostri campi inariditi

che inciampiate nei nostri corpi le vesti ».

Ho lasciato il mio posto vecchia tana

nel cuore troppo tranquillo

della città addormentata.

Ho bestemmiato battendo il capo

tra le mani, ma mille

e mille mani nere, aspre

di odio inaridito

hanno fatto una schiera dentro me.

 

2

Chiudete i pugni, via

gridate al cielo spasimi di febbre

non domata. Non vogliamo

preti che non credono in Cristo,

capi che urlano dall’alto,

servi che strisciano tra i piedi

né vacche grasse dagli occhi

inumiditi dal languore.

Filosofi, avete detto parole

a sufficienza, ora vi mostriamo

pugni serrati dal furore. Che temete?

L’alterità del mondo è la vostra paura

ed io ho lasciato il mio posto

per farvi tacere almeno questa volta.

In questa schiera di mani ho ritrovato

i miei padroni e i miei servi,

i miei compagni, gli amici

compagnia di straccioni, di assassini

per miseria di puttane,

di ladruncoli bambini dagli occhi

impauriti. Guai a voi scribi

e farisei ipocriti; guai a voi

falsi Cristi inchiodati in croci d’oro.

Abbiamo lasciato il nostro posto

e spaccheremo il cuore troppo tranquillo

della città addormentata.

 

3

Ed io che canto invano,

invano per tutta la notte, ora una nenia

di uomini stanchi odo sotto la pioggia

di nubi liquefatte alle speranze,

ora è tempo di correre buttare via

i miei versi dolciastri e a piedi nudi

correre sotto quella pioggia.

Eccomi, fratelli, eccomi schiavi

antichi delle nuove leggi,

io vi darò speranze che allontanino

la frusta dei giorni senza fine.

Non sopportate più voi siete

liberi da ogni male futuro

ed il presente io prenderò con me

trasfigurato in versi che martellano

le carni degli ipocriti.

Non canterò più, luna,

non canterò più, notte di silenzio,

ora il fragore delle fruste

che battono le carni dei fratelli

sono assordanti grida alle mie orecchie,

e il canto si è spezzato nella gola.

Urlerò, con mani levate a crocifiggere

il segno del comando. E mi farò

schiavo per sciogliervi le catene

servo per dare a voi il comando

ucciso per dare a voi la vita.

Né importano le piaghe. Aspri versi

tuoneranno dal mio cuore in uragano

per naufragare gli stolti ed i sapienti.

 

4

Sono sceso alla radice del dolore

come in fondo alla gola

di una oscura miniera abbandonata.

Ho scavato con disperazione assurda

sempre più al fondo della vita

per liberare l’urlo che freme

con fragore di tuono nella pioggia.

Là fuori, sepolti sotto un sasso

ho lasciato le mie vesti

ed il mio nome tra la folla

che sorride sazia di ogni giorno.

Nel buio sono sceso come cieco

protendendo le mani

e giunto al fondo – irraggiungibile fondo

dove mai nessuno è sceso –

fra sangue di omicidî, nell’odio,

fra terrori ed invidie fra vendette,

i bianchi grandi occhi di un fratello

morente.

E tu chi sei fratello?

Uomini maledetti sono sceso

nel profondo della vita per questo

spettacolo di morte? E ora io

vi guardo col disprezzo

che scarna il corpo del fanciullo.

Sono sceso alla radice del dolore

e ho visto un bimbo morente

nutrito dal vostro odio.

Che non muoia! I vostri ventri

stretti da panciotti, le vostre

grasse labbra inumidite e gli occhi

mostrerebbero le maschere beffarde

del vostro cuore roso già dai vermi.

Tutti voi siete mostri di cartone,

sorridenti pupazzi alle miserie

dei vostri fratelli disperati – ed è la vostra

disperazione, maledetti.

 

Cantate, oh si, cantate poeti del dissenso

rivestiti dalle piume del corvo.

Pregate anche, pregate, preti

nelle chiese illuminate dai ricchi

dove non è mai nato il Cristo

ma crocifisso grida dal dolore

«Abba perché mi hai abbandonato ?».

E voi filosofi costruttori di schiere

disumanizzate e schiavi degli occulti

imperi del denaro, vili servi

di un benessere falso e troppo facile,

frutto di vendette e di violenze,

gridate ancora, ancora a più alta voce

contro chi vi resiste e già vacilla

e già si arma la mano.

Sono sceso alla radice del dolore

e ho trovato un fanciullo protetto

da canti da preghiere da urla

ma morente.

 

5

Quante volte ipocriti

avete crocifisso Gesù Cristo?

Non una ma mille e mille e mille,

e non su rozze tavole di legno.

« Stendi le tue mani per piacere,

il chiodo è d’oro ed entra sveltamente.

E a lato non mettiamo due ladroni

– troppo poco per te che sei Signore –

ma migliaia di uomini di donne,

di vecchi, di fanciulli, di bianchi

e negri, rossi, gialli,

prostitute di tutte le nazioni,

ladri, assassini, truffatori, figli

illegittimi ed adultere, falliti,

zoppi ciechi sudici pieni

di pidocchi e d’infiniti mali. Guarda,

ad uno ad uno con le nostre mani

li abbiamo acconciati per farti

da corona.

Che ci darai, Signore, in ricompensa ? ».

 

Da:

Marcello Comitini , Un ubriaco è morto (Poesie),  Edizioni Caffè Tergeste – Roma (2019)

© Tutti i diritti riservati

 

Settembre a Roma (ITA – FR)

Annie Leibovitz bn

foto di Annie Leibovitz

La mia dolce amica Catherine ed io abbiamo ammirato le bellezze di Roma. I ricordi hanno colmato i nostri cuori e le parole sono salite alle labbra. Due modi diversi di guardare ai ricordi. Ma un solo canto ci ha inebriato e lo offriamo ai nostri amici.

 

La Rome de mes souvenirs

Douce et vibrante

N’est pas morte

quand je repense

à ce soir de septembre.

Une femme dépose

l’or de ses cheveux

dans le soleil couchant

et l’iris de mes yeux.

Mirage d’une nuit

Présage charnel

Une mouette vole en courbes

Entre la mer verte des pins

Et les vapeurs du ciel.

 

Dans le miroir des nuages

Entre  tristesse et rêve

Le reflet de son regard

L’ourlet de ses lèvres

Appellent ma chair

Mais nous ne disons rien

Je prends doucement sa main

Elle ne dit pas son nom.

Je le connais

Les battements de mon cœur

le prononcent.

C’est le nom que je donne à la vie,

que je donne à l’Amour

Une âme en présence

qui fait d’un corps

le revers de la mort.

Catherine Smits

 

Era la Roma di quegli anni: una città

dolce e sorridente. Un città

che invitava le persone ad amarsi.

Era settembre.

Una sera ho incontrato una ragazza.

Lei ed io, seduti sul parapetto,

guardavamo Roma

illuminata d’oro al tramonto.

Vapori azzurri tremavano

all’orizzonte delle colline

e delle guglie acuminate delle chiese.

Un gabbiano disegna un cerchio

Tra il cielo e il mare verde dei pini.

Le tengo la mano

guardando incantato

nello specchio delle nuvole

i suoi capelli rossi di fuoco,

i suoi occhi  malinconici

il suo sorriso dolce, le sue labbra che invitano

a farsi carezzare dalla  punta delle dita.

Non dice il suo nome.

Io lo conosco.

I battiti del mio cuore

lo pronunciano. È il nome

che do alla vita

che avrei dato all’amore

che fa di un’anima la presenza

che fa di un corpo il rovescio della morte.

 

 

 

Marcello Comitini

 

Febbre di vivere (ITA_ FR_ ENG)

Monia Merlopic

foto di Monia Merlo

Febbre di vivere

Datemi un sogno una speranza
un segno
che mi accompagni nel silenzio
della vita se è vero
che non siamo capaci di apprezzarlo.
Il silenzio, come traccia d’un amore che ci attende
come sguardo che ci attira
come braccia
che ci stringono con dolcezza.
Ora che non ci sono più eroi
che vivono per morire tra le lacrime
della donna amata
per una patria inesistente
per un fratello sconosciuto c’è lui
che ci brucia dentro
con le unghia della solitudine
che ci fa cercare il chiasso di risate
che non hanno
che da ridere del nulla.
Come se la vita avesse
un disperato bisogno di volare
nel vuoto delle nuvole.
Spesso usiamo le parole
per uccidere il silenzio
per fare della solitudine un ricordo lontano
un male passeggero.
Lei ci sta accanto
giorno e notte e la sua febbre ci divora
ci fa vedere amici in un semplice gesto
ci fa innamorare
della puttana tra le lenzuola che ci sorride
mentre contiamo le banconote.
Poi chiude la porta e si allontana
nel buio della via.
E noi restiamo con la solitudine
e il vuoto dentro
una stanza che ha visto i nostri corpi
fremere con una voglia effimera
di eternità.

Fièvre de vivre

Donnez-moi un rêve un espoir
un signe
qui m’accompagnent dans le silence
de la vie si c’est vrai
que nous ne sommes pas à mesure de l’apprécier.
Le silence comme trace d’un amour qui nous attend
comme un regard qui nous attire
comme des bras
qui nous serrent doucement.
Maintenant qu’il n’y a plus de héros
qui vivent pour mourir dans les larmes
de la femme aimée
pour une patrie inexistante
pour un frère inconnu il y a le silence
qui nous brûle à l’intérieur
avec les ongles de la solitude
qui nous fait chercher le bruit des rires
qui n’ont
que rire de rien.
Comme si la vie avait
un besoin désespéré de voler
dans le vide des nuages.
Nous utilisons souvent des mots
pour tuer le silence
et faire de la solitude un lointain souvenir
un mal qui passe.
Elle est à côté de nous
jour et nuit et sa fièvre nous dévore
nous fait voir des amis dans un geste simple
nous fait tomber amoureux
de la pute dans les draps qui nous sourit
pendant que nous comptons les billets.
Elle ferme la porte et s’éloigne
dans l’obscurité de la rue.
Et nous restons avec la solitude
et le vide à l’intérieur
d’une chambre qui a vu nos corps
frémir avec un désir éphémère
d’éternité.

Living fever

Give me a dream a hope
a sign
to accompany me in silence
of life if it is true
that we are not able to appreciate it.
Silence, as a trace of a love that awaits us
as a look that attracts us
like arms
that squeeze us gently.
Now that there are no more heroes
living to die in tears
of the beloved woman
for a non-existent homeland,
for an unknown brother there is the silence
that burns us inside
with the nails of solitude
that makes us look for the noise of laughter
who laugh at nothing.
As if life
desperately needed to fly
in the emptiness of the clouds.
We often use words
to kill silence
to make solitude a distant memory
a passing evil.
She is next to us
day and night and his fever devours us
makes us see friends in a simple gesture,
it makes us fall in love
whore in the sheets that smiles at us
as we count the banknotes.
She closes the door and walks away
in the darkness of the street.
And we remain with solitude
and the emptiness inside
a room that has seen our bodies
quiver with an ephemeral desire
of eternity.