
Accecati dalla luce fredda che scolpisce la facciata
entriamo nella cattedrale tutti insieme. Non vediamo nulla.
Usciamo. Da una porta a fianco scopriamo la Certosa
come una piccola città lombarda dalle mura alte, portici, colonne,
capitelli intagliati, storie di santi in terracotta, chiostri
illuminati dal bagliore delle acque che si riversano
dagli orli delle vasche.
Sotto i portici udiamo il gracidare secco delle foglie
che mulinano nel vento.
In ogni cella un Crocifisso implora al muro ruvido di calce.
E poi, silenzio.
Negli orti risvegliati dal brusio di passeri fuggiaschi
cogliamo qualche frutto stento.
Ora risuona nell’ampio refettorio il tramestio dei nostri passi
strascicati di turisti.
Sgomenti e affascinati da tanta solitudine
sfiliamo lentamente innanzi ai tavoli ammantati a festa.
I frati hanno messo in mostra
mille vasetti etichettati “Miele di San Giovanni”
“Unguento di Sant’Anna”, dodici “Ceri del Signore”
legati a fascio con un nastro azzurro.
Mi torna alla memoria quel silenzio e il Cristo al muro.
Tutto ho acquistato per risvegliare la mia fede
e farmi perdonare i miei peccati.
Monastero d’ombre, di santi senza nome e di sospiri,
di monaci che negli orti seppellivano la voglia d’esser vivi
sarei vissuto mai tra le sue mura?
Ogni sera avrei atteso
con un saio indosso e un cordone stretto attorno ai fianchi
il battere dei passi lungo i corridoi di una vita
che avanza silenziosa sotto un cielo senza luna?
Avrei pregato ad ogni alba il Cristo
di perdonare i miei peccati che nella notte
intorno al mio giaciglio
hanno versato il miele del piacere?
Monaco in preghiera in fondo al mio silenzio
scavo una nicchia nelle pareti azzurre della cella.
Lei mi attende in sogno. La depongo dolcemente
nella nicchia luminosa, ai suoi piedi accendo
ceri profumati, ammanto i suoi capelli con un velo d’ambra.
Come il serpente schiacciato dal suo piede
le avvolgo il corpo in una tunica di miele.
Mi risveglia il suono opaco di campane
e l’armonia lontana di un canto gregoriano:“Finché non giunge
morte con il capo cinto dalle tenebre ”.(*)
E i baci che le ho dato? Quelli ricevuti e le carezze?
E lo stupore della vita, i palpiti del suo corpo mentre l’abbracciavo?
Non so se è più un tormento o un sogno.
Alle nostre spalle la meraviglia della facciata gelida.
Intorno a me tutti sdraiati al sole. In un brusio di parole sussurrate
reggiamo tra le mani i souvenir come ostensori.
(*)dum veniet tenebris Mors adoperta caput (Albius Tibullus, Elegiae, I, I, 71)