Siamo qui

Polena

Oggi sono ancora purtroppo nella fase del “non ho nulla da dire”. Però posso confessare che la fine dell’inverno non mi tirerà su il morale perché per fortuna il tempo ha su di me un’influenza minima.
Se mai si potesse stabilire una percentuale per valutare il peso del tempo atmosferico sui miei stati d’animo, sarebbe del 10%. Il restante 90% è invece terreno incontrastato di quel tempo che passa scandendo i colpi sonori e cupi dei secondi, quei piccoli scatti ansiosi e astiosi che trascinano al giro le altre lancette.
A volte mi vedo proprio in punta alla lancetta dei secondi, immobile come un marinaio che scruta in piedi il mare da una banchina deserta, eppure soggetto a uno straziante viaggio di trasformazione. Sempre lì, in punta a quella esile lancetta, mi distendo piatto ogni qualvolta quella più robusta dei minuti mi scavalca e chino il capo rassegnato quando vedo giungere a sovrastarmi quella opulenta e pensierosa delle ore con il suo incedere subdolo, come di colei che non passa mai e invece corre fino a esaurirsi all’improvviso quando la spinta che le dona vita viene a cessare.

Perciò ogni giorno mi affretto a dare carica al pendolo che all’ingresso attende chi entra in casa mia. Per dire a tutti: benvenuti, siamo qui, siamo ancora vivi.

Il peso della farfalla

Rosanna Nardon_il bosco delle farfalle

Rosanna Nardon, Il bosco delle farfalle, 2010

Ogni giorno mi offrono uno spettacolo diverso le mail che Claudia mi manda. Le apro e sullo schermo appaiono immagini di giardini fioriti o ampi panorami di prati invasi da farfalle con le ali spalancate su esili steli o sui petali dei fiori, pronte a fuggire e a confondere il cielo con i loro disegni variopinti. Ogni giorno una mail senza una riga di spiegazione. Semmai il nome delle specie (colis, melitaca o arcania, fra quelli che ricordo) scritto a caratteri corsivi, piccoli, appena sotto ciascuna immagine, come un breve promemoria, una nota a margine, per dare un segno di concretezza a quelle fantasie variopinte.
È da una settimana che le ricevo.
Le avevo ritenute come un suo voler sottolineare la propria leggerezza che le permetterebbe di volare al contrario della pesantezza del mio immobilismo. Mi sono sempre rifiutato di credere che intendesse sottolineare la relazione tra i suoi ventuno anni e i miei trentasette.
Prima Claudia aveva l’abitudine di attaccare un post-it sulla facciata esterna della porta di casa. La sera al mio rientro l’opaco colore giallino su cui si incrociavano delle linee a formare un rete, sembrava segnalarmi un pericolo o un impedimento o un ostacolo. Con un vago senso di angoscia varcavo la soglia e mi ritrovavo Claudia davanti appoggiata alla parete di fronte alla porta d’ingresso, i capelli lievemente scompigliati, le braccia incrociate sul petto, gli occhi fissi su di me come volesse dirmi qualcosa. Sopra di lei un grande disegno a sanguigna di due volti femminili su fondo color paglia: uno di profilo con lo sguardo corrucciato e i capelli grigi raccolti dietro la nuca, l’altro di fronte, nell’atto di urlare di rabbia e una lunga capigliatura sciolta sulle spalle. Con voce rassegnata mi chiedeva: “l’hai visto?”. Io le mostravo il post-it sulla punta delle dita e accennavo gravemente di sì col capo. Lei con un sospiro abbassava gli occhi come a guardarsi il grembo. Allora iniziavo a raccontarle la mia giornata di lavoro senza riprendere fiato.
Adesso ogni giorno le farfalle e ancora la sua attesa sotto quel quadro. E ancora la mia angoscia.
Quando ci siamo conosciuti, Claudia era invaghita di tutto ciò che produceva musica, danzava da sola, rideva di un’allegria infantile, amava essere corteggiata. Era un po’ impudica nella sua femminilità. Ma proprio quella sfrontatezza, quella sua compiacenza nel mostrasi, a volte nuda, mi aveva conquistato.
Ci vedevamo ogni sera. Ci raccontavamo di noi stessi, ma soprattutto era lei a raccontarmi dei suoi studi, degli amici, del suo ragazzo, della sua incapacità a resistergli quando si faceva insistente e pretendeva l’amore anche quando lei non voleva. L’ascoltavo, la confortavo, spesso le asciugavo le lacrime di un pianto silenzioso. A volte mi chiedeva ridendo se provassi per lei più il piacere di desiderarla che il disappunto di saperla di un altro.
A volte mi provocava lasciando la porta aperta quando andava in bagno e con lo sguardo assorto sedeva sul water, come se io non ci fossi, oppure con la fronte lievemente corrucciata e lo sguardo divertito, mi chiedeva se il profilo dei suoi seni fosse perfetto, se la peluria del suo pube le guastasse l’armonia dei suoi sedici anni appena compiuti. Non ho mai risposto alle sue domande. Non osavo toccarla né lei m’incoraggiava. Ma sentivo che ogni giorno si andava legando a me con l’orgoglio della ragazza ammirata da un uomo di trentadue anni.
Il mio starle accanto ha esercitato su di lei una pressione garbata, soprattutto in questi ultimi tre anni di convivenza. La sua spontaneità si è trasformata lentamente in consapevolezza del suo ruolo, delle sue responsabilità. Niente risate fuori posto. Molto meno musica.
Rimane adesso in me quel senso di angoscia per le sue mail come per i suoi post-it e per tutto il silenzio indecifrabile che accompagna questi segnali. Mi martellano, mi ributtano indietro nel tempo in cui lei viveva nella sua libertà ed io temevo di perderla. Mi è sorto tante volte il desiderio di chiedergliene il senso, di scrutare in fondo ai suoi occhi a cercare il segreto di tanto silenzio. Ma non voglio suscitare pensieri che non ha. Forse il suo – mi dico – è solo un gioco, un gioco di luci e di colori, un gioco di sogni che si librano nella sua mente. E poi mi sorgono questi dubbi durante la sera, che è il solo momento della giornata in cui stiamo insieme. Quando facciamo l’amore, la guardo e ho paura. Quando mi parla, le sue parole mi giungono da dietro una lastra di vetro su cui scorre un velo sottile e uniforme di acqua gelida, come se in fondo al suo animo stagnasse una sensazione di solitudine, di smarrimento. Non so quello che pensa, quello che potrebbe dire e che non le ho mai lasciato dire. Forse non le ho mai lasciato fare. Non posso fermare questo suo fluire in oscuri sogni. I suoi occhi non mi guardano. Ho paura di restare solo. Sì, ho paura. Ho paura dei suoi sorrisi, del suo giacermi remissiva tra le braccia, del suo volto illuminato da una luce che ne esalta i lineamenti, come le ali delle farfalle che riempiono le sue mail e sono pronte a volare per confondere il cielo. Ho paura del suo desiderio di ritrovarsi.
Oggi – ho deciso – non aprirò la mail. Tra le dieci e mezzo e le undici, non appena me l’avrà inviata, tornerò a casa. Non la troverò sotto quel terribile quadro. Non sarò assalito dall’angoscia. La cercherò per le stanze, l’abbraccerò senza dirle nulla e lei si abbandonerà lentamente alle mie carezze. Sarà come sempre tra le mie braccia. Avrà il peso di una farfalla. Le sorriderò. Vedrò finalmente i suoi occhi guardarmi, interrogare, chiedermi ancora una volta di proteggerla. Sentirò le sue ali tra le mie dita, la penetrerò dove la vena le attraversa diafana e azzurrina l’inguine, con una lama lunga e sottile. Spalancherà le braccia, dischiuderà le labbra. La terrò stretta. La custodirò dentro il sigillo di vetro del mio cuore.

Le Ombre

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Ida Chessa, Milano, 2015

Oh, la notte che invade strade e piazze
lacerata dai rami dorati dei fanali
sopra la quiete delle auto in sosta
ordinate in quell’unica lunga ombra
del loro starsene in fila sull’asfalto.
Dai palazzi s’illuminano gli occhi
teneri e caldi d’infinita stanchezza
e dai vetri traspaiono le ombre
che posano sui piatti il vapore rosa
delle pietanze
Parlano del giorno che si è appena concluso
fingono un’ironia che maschera tristezza.
Traspaiono dai vetri anche le speranze
degli uomini che sfiorano la fronte
serena dei bambini, quelle delle mani
che sui cuscini toccano
il tepore di labbra umide d’azzurro.
Nel fiatare muto i corpi che si cercano
allontanano la fredda angoscia del tempo,
trattengono nel buio la luce degli sguardi
come farfalle nel cielo del tramonto.

Da una finestra spalancata in alto
sulla facciata oscura del palazzo
una musica vibra, si diffonde
nelle strade deserte, attende muta
dietro i vetri delle finestre illuminate.
Un uomo silenzioso si spoglia nella stanza
danza a passi lenti davanti allo specchio
assieme alla sua ombra incatenata ai piedi.

Si spengono una ad una le finestre e i rami
dei fanali scintillano dorati.

L’uomo nudo attende in compagnia della sua ombra
le ultime ore della notte.
O per sempre!

Libertà

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Renato Guttuso, Il giovane e i mostri, 1980

“Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento,
prendere senza esitare la via della prigione.”
– Giovannino Guareschi –

Arrampicatomi a fatica sul tetto di una casa
uno di quei tetti di tegole antiche
che si spaccano con un crack sotto il peso
vedevo il mare in lontananza
e alle mie spalle le montagne azzurre.
In basso si stendeva il paese lungo i fianchi
della collina che scende alla pianura
e tutt’intorno boschi, alcuni campi arati
e silenziosi buoi intenti a pascolare.
Vidi anche un ponte
lanciato verso il cielo luminoso
che poggiava una sua base sulle tegole.

Libertà – pensai – ecco come appari,
una metà dell’arco si lancia verso l’infinito
a cercare sogni di stelle e di speranze
l’altra si poggia sul passato.

Se questo sei,
se non sei la voglia di lasciare indietro
tutto un mondo decrepito e infelice
perché fuggire verso sogni incerti?

Altro non resta che scendere in silenzio
a pascolare mite con gli armenti.

 

Beatrice

Donna che cammina gonna

 

Le tue gambe
limpide e nude fino a mezza coscia.
Poi la gonna
le nasconde all’improvviso
in una sola nuvola di fiori.
Al passo che ti muove
lungo i fianchi
sembra che tutto il cielo
ti sia sceso intorno ebbro
d’azzurra melodia.

Torna in me la voglia
dell’adolescente che sogna
la tua bocca sulle labbra
e sente
d’essersi smarrito
in quella nuvola di fiori.
Passa sul mio corpo un vento
di profumi e di rose
bianche come la mia pena.

Oh Beatrice, non parlare
perché dalle tue labbra non si mova
quello spirito soave pien d’amore
che va dicendo a l’anima: sospira.

Chi sosterrà
il mio cuore adolescente
se muore
coi sospiri la speranza?

Duetto

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foto Marcello Comitini, Tramonto sulle colline laziali, 2014

L’incarnato del cielo in agonia
velato dalle nuvole
s’imporpora.

La notte porge il viso silenziosa
ai baci e alle carezze
del tramonto.

Nella mia sera la tua bocca
s’imporpora di baci
e la notte lucente dei tuoi occhi
mi nutre dei tuoi sogni.

Versione inglese

The complexion of the sky in agony
veiled by clouds
blushes.

The night offers the silent face
to kisses and caresses
of the sunset.

In my evening your mouth
blushes with kisses
and the bright night of your eyes
feeds me of your dreams.

Versione francese

Le teint du ciel à l’agonie
voilé par les nuages
s’empourpre.

La nuit silencieuse tend son visage
aux baisers et aux caresses
du soleil couchant.

Dans ma soirée ta bouche
s’empourpre des bisous
et de vos yeux la nuit luisante
me nourrit de vos rêves.

 

Carnevale

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S’avvicinano i giorni dai volti deformi
che si moltiplicano ad ogni angolo,
delle risate che ghignano
e gli occhi rossi dei diavoli
trionfanti sui carri.
Allargano e chiudono le braccia nel gesto
silenzioso di cogliere con una falce
un tridente  un coltello
la vita tranquilla di una folla sopraffatta
dal suo stesso ridere che si lascia inghiottire.
Mostri di cui l’uomo si beffa
come fosse il loro dio creatore
come se dopo tutto potesse ricominciare.

Padrona e artefice di quelle maschere
che gli scorrono innanzi
è la paura di quelle risate 
che l’uomo rivolge a sé stesso ogni giorno.
Spesso si guarda come un bambino davanti allo specchio 
gli tende le mani ne sente il gelo
e allontana dal cuore la felicità di quel volto
a lui sconosciuto.

(bozza)

 

 

 

 

Dopo una notte alla luce delle stelle

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Federico Zandomeneghi, senza titolo, 1918

Dopo una notte alla luce delle stelle
l’alba appare luminosa
nell’orizzonte quieto dei tuoi occhi
più chiaro e più profondo
l’azzurro limpido delle tue pupille.
I tuoi capelli sopra le lenzuola splendono
nel raggio insanguinato che li incendia
come una vela sciolta al sorgere del sole.
Mi sorprendi
nella dolcezza del risveglio
con i tuoi baci dal sapore di un dolore sconosciuto.
Nave senza remi né timone,
colma di ricordi
mi sei venuta incontro
sospinta dal vento profumato di oscurità lontane.

Ora ti abbandoni alla marea delle mie braccia
all’onda del mio corpo
attratta dal desiderio puro di donarti.
Mi parli dell’ amore
più azzurro che l’azzurro del tuo sguardo
con la voce delle acque che scintillano
alla carezza tenera del sole.

Chiudo gli occhi e cerco con le mie vene le tue vene,
il marmo del tuo ventre, le tue mani di luna,
la bianca piuma della fronte.

Colgo nel tuo corpo il senso della vita
lo splendore che ho atteso fin dal primo giorno.