Un sasso tondo
levigato
scagliato con un gesto d’ira
che mi avrebbe colpito
in piena fronte
non questo silenzio acuminato
dritto nel cuore
senza sparger sangue.
da Formule dell’anima , 2009
Un sasso tondo
levigato
scagliato con un gesto d’ira
che mi avrebbe colpito
in piena fronte
non questo silenzio acuminato
dritto nel cuore
senza sparger sangue.
da Formule dell’anima , 2009
Jeanloup Stieff, La danza
I costumi pallidi di tulle
pendono dalle grucce nell’angolo d’ingresso
dove voi ragazze vi spogliate ridendo.
Serrate i nastri azzurri dei vostri capelli
tardate a rivestirvi dei costumi
sbirciando di sottecchi le grazie delle altre.
Alle pareti gli occhi degli specchi si riflettono
nel pianoforte all’angolo sul fondo della sala
con la lunga fila di denti che biancheggiano
tra le labbra atre di maschera rituale.
È il sorriso spento nell’attesa della musica
come voi che provate qualche passo
accennato nel silenzio sulla punta dei piedi
furtive guardando la rivale in quel gioco
che dona senso ai questi passi vuoti.
Alla luce che insanguina i vetri alle finestre
come un’ombra nella sala prendo posto al pianoforte
stendo innanzi a me le mani socchiudendo gli occhi.
Chino il capo sul petto
scorro le dita sul chiarore dell’avorio
simile ai denti gialli di una vecchia
che amata si abbandona sorridendo alle carezze
di un suonatore cieco.
I vostri visi attenti come stormi di falene
bruciano nell’aria l’oro della polvere.
La musica colpisce con i suoi martelli
le corde nascoste dei miei sentimenti
e voi mi offrite il concerto armonioso
dei vostri corpi che infiammano gli specchi
di luci diamantine.
Con un tempo lento e malinconico la sera
scolorisce alle finestre nella tenerezza della luce.
Nei vostri occhi sfolgora la notte e i sogni accesi dalla danza.
Potrebbero non esistere – dice la mia mente
a quella parte di me che vi segue con il cuore
volato via assieme alle vostre movenze.
simili a quelle della musica
alla dolcezza dei colori che dà vita al soffitto
ai riverberi cangianti del marmo che rimanda
ai vostri battiti d’ali.
Potreste non esistere – ancora mi ripete
a me che il volto chiuso nel gesto delle mani insisto
sui tasti per spegnere nel nero di questa vostra notte
la dolcezza atroce che mi opprime.
Elisabetta Trevisan in Figure
Carezzo le tue spalle e con le mani invito
la tua veste a scivolare lentamente
seta su seta lucente del tuo corpo.
Ai seni intorno, nuvola leggera,
s’arresta palpitante e d’improvviso cade
e scopre di due stelle le rose profumate.
Alla curva spiccata delle anche
esita come un drappo
e le tue gambe cela e ancora il pube.
Nello stupore silenzioso della stanza
i nostri corpi nudi come dei
in piedi come onde opposte del mare
vibrano di carezze ansiose e desideri
d’armonie sottili sulla pelle.
Per incontrarci e fonderci nel tutto
dei nostri sogni e dei nostri desideri
circondi col tuo stretto abbraccio la mia schiena
e le mie mani seguono di fuoco
i lineamenti dolci del tuo viso.
Tutto di te mi è noto e sconosciuto
l’incanto della schiena il collo le tue spalle
la curva dei tuoi seni che le mie labbra toccano
come farfalle che volteggiano sul miele.
Ancora in piedi spingo giù la veste
e dei tuoi lombi pieni come frutti
sento la polpa carnosa della mela
seguo la curva lieve del tuo ventre
perdersi nella macchia di muschio e capelvenere.
Le tue gambe svelte sono ruscelli chiari
che scorrono su ciottoli lucenti
e una fonte segreta le separa
e le cosparge di rugiada e viole.
A te mi stringi con violenza,
ci abbracciamo
distesi come il mare che si culla sulla sabbia
e sul tuo corpo copro col mio corpo perle
umide alghe grappoli di stelle.
In te sento il calore della preda ansante
pronta a morire come estremo dono.
E sorridi e mi guardi come fossi un dio.
Tutto di te mi dice vita e desiderio.
Tutto
ho dimenticato di me stesso.
Tutto io sono nei tuoi occhi chiusi
nella tua bocca soffocata dai miei baci.
Sono il tuo ansimare il tuo respiro roco
le unghie che mi pianti nella carne.
Tutto io sono e tutto mi smarrisco
fra le gambe che apri e lasci entrare
nella tua vita il seme della mia
Ansel Adams, Big Sur, 1946
È un canto triste e lento, una lunga nenia
che sfinisce il corpo e intorbida la mente
questo viaggio interminabile sul mare
lucido di luna e nel silenzio delle stelle.
Dai vortici dei solchi che la barca lascia
come bava di lumache sulla pelle viscida dell’acqua
salgono le voci di coloro che hanno attraversato il mare.
Gridano gli addii, chiamano, ammoniscono
come nuvole che si sperdono nei fuochi del tramonto.
Con le mani alzate sulle soglie nere delle porte
– altri pozzi da cui escono altre voci –
salgono sulla barca e cantano le nascite,
ancora dentro i ventri o strette tra le braccia,
i matrimoni, i morti, le vite soffocate nella polvere
e tutto quello che hanno abbandonato.
Tutto, tranne la speranza.
Il viaggio è lungo e lento
come il mormorio di un canto sussurrato a labbra chiuse,
che d’improvviso lacera le gole quando il mare
gonfia le sue vene e i fianchi della barca
si rovesciano mostrando il dorso come un bruco
con migliaia di zampe in disperato movimento.
Si tuffano, galleggiano, saltano come i pesci,
inghiottono nel vento il fiato della morte
o si aggrappano forse all’ultimo lembo della vita.
Ripiombano pesanti tra le onde,
vogliono ostinatamente giungere alla riva,
quella spiaggia dorata di alghe stese al sole
e di gioiose posidonie per giocare.
Se ancora i corpi avessero la vita.
I volti lacerati dagli scogli baciano la sabbia
e gli occhi gonfi di sale nella terra cercano
i segni di un futuro che non ha più storia.
Con i visi rivolti alla paura
e con le mani tese alla pietà,
li solleviamo trasportandoli a riparo
dallo sguardo freddo della luna
dalla crudeltà del sole che ha brillato su di loro
dal lungo pianto delle stelle tra le onde.
Ai polsi e alle caviglie li afferriamo
come otri colmi d’acqua e di sale
come se dovessimo stivarli su una nave
salpata per un lungo viaggio
verso un mondo lontano senza meta.