In perfetto equilibrio

Lorenzo Quinn, The Four Loves

Lorenzo Quinn, The four loves

 

Tengo il passo che tiene la vita
lungo le strade sbilenche. Alle sue spalle
seguo il profumo che lascia
a piedi nudi calco le sue orme.

A volte mi ritrovo nel dedalo degli anni
a calpestare
il fango d’un amore perduto,
a volte mi perdo
in una stanza vuota e incolore
dove mi parla un aldilà incerto.

E la vita continua il suo cammino cieco.

La seguo come un uomo stupito
di quello che m’insegna e di quello che capisco.
Sul mio volto scendono
le lacrime che non voglio.
Con i sorrisi accendo la maschera del viso.

Il mio cuore ignaro pesa sullo stesso piatto
quello che ho dato e ciò che ho ricevuto.
Vorrebbe con la vita un perfetto equilibrio
tra i conti del passato e quelli che verranno.

Ma sul display della bilancia crescono
al crescere degli anni i numeri rossi.

L’amica dei poeti – Marcello Comitini

Il blog Poesia in Rete di Titti de Luca mi regala uno spazio tra i suoi poeti.

Poesia in rete

Benedetto De Lisi, Le due amiche (particolare)

Di te, del tuo sguardo, del tuo corpo di donna
dei tuoi timori e del grigio annuncio del futuro
– cieco all’improvviso divenuto sordo –
tutto ho perduto.
Tutti i dolori e tutte le paure.
Né le tue gioie – mai potrei trovarle
nascoste dietro un velo di parole.
Non tue ma dei poeti
che scavalcano i monti
con l’orgoglio di chi conosce il cielo.
Volano
ti rapiscono con gli artigli delle aquile
ti portano più in alto dove è limpida l’aria.

Di tutto questo soffro. Ma tu
non puoi vederlo perché per te l’amore
sorge a un orizzonte rabbuiato dalle nuvole.
E mi accusi d’essere inetto ed incapace
di volare assieme a te,
di spegnere la sete che la luce infonde a chi
v’immerge le ali del sogno.
Cosa posso fare io cantore e cieco?
Trascino le mie ali lungo il mio…

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Il mio quartiere è una nave

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Foto mia, Vista notturna del quartiere Inviolatella (Roma)

 

Il mio quartiere è una nave ancorata.

(brano già pubblicato. Ora riveduto e corretto)

Il mio quartiere è una nave ancorata che guarda dall’alto il mare verde dell’Inviolatella e degli Orti di Veio sulle sue onde di alberi e prati. Si protendono al cielo le ciminiere, le antenne e i radar sui palazzi e le strade.

In cima ai pennoni porta lo stemma di cuori liberi e affranti. I passeggeri che s’imbarcano dai moli di Roma salgono per due passerelle tortuose e ripide come sentieri di campagna.

Sul ponte le sue cabine sono l’una sull’altra come palazzi. Sono tenere alcove che ospitavano gli amori clandestini: s’imbarcavano in auto all’ora del tramonto indorato dal sole e andavano via a fari spenti nel cuore della notte come coloro che vengono da terre lontane e svaniscono inghiottiti dal buio. Adesso gli amori sono finiti. S’imbarcano coloro che vengono da terre lontane, salgono scendono, vanno via e svaniscono. Lasciano volti nuovi e portano via quelli vecchi.

Al piano terra d’un palazzo ci sono le stive, le sala macchine che fanno pulsare tutta la nave. Erano locali adibiti a supermercato messo in piedi per attrarre clienti sulla nave in procinto di salpare. Il supermercato è fallito e i locali sono stati divisi dagli scafisti di terra in cunicoli bui da dare in affitto a povera gente.

Il mio quartiere fa il giro del mondo e getta le ancore nel fondo dei tombini. Non ha bar, non ha boutique, non ha negozi dove comprare ciò che nessuno può comprare. Chiunque entra ed esce, va via e svanisce. Il mio quartiere non ha limiti. I suoi confini si sciolgono nelle pozzanghere che specchiano il cielo, con le nuvole che fuggono all’alitare del vento e si sperdono sui tetti dei palazzi. Nelle pozzanghere si specchiano i volti delle ragazze che non hanno altro modo per guardarsi se non sporgere il viso verso i riverberi del fango. Si specchiano i corpi ancheggianti dei ragazzi fuggiti dal Brasile che nei cunicoli, fatti nidi d’amore, hanno la libertà di mostrare i loro corpi di donna.

Il mio quartiere non ha limiti, i suoi confini si dissolvono mescolandosi lentamente al frastuono della città alle spalle. Non si arena sulle spiagge dove distendono al sole i cadaveri. Non s’incaglia fra le scogliere dove affondano le imbarcazioni che trasportano in equilibrio la speranza e la morte.

Ai moli della città lega spesso le funi di quelle piccole stanze soffocanti d’estate, maleodoranti di muffa e di freddo in inverno, che gli scafisti di terra hanno dato in affitto a coloro che sono giunti da lontano.

Dalle pareti granelli verdastri di muffa s’intrufolano come polvere nei polmoni e negli occhi. Nelle strade tutto appare tranquillo, i balconi sono vecchi cimiteri che traboccano d’oggetti dimenticati tra il cielo e la terra.

Quando coloro che sono giunti da lontano scendono in strada al mattino, dai loro volti straniti traspare la stanchezza d’avere smaniato per un sonno che non è mai arrivato, tutti ammucchiati nello stesso letto, l’amarezza d’aver fatto all’amore violando il sonno dei figli, d’aver negato ai propri desideri il diritto di desiderare.

Nulla appare agli occhi di coloro che sono nati qui, simili a eterni capitani della nave, perché i loro occhi vedono solo sé stessi o solo quelli degli altri nati qui come loro.
Di quelli giunti da lontano vedono il colore diverso della pelle, il biancore scheletrico dei denti, il taglio degli occhi stretti in un sorriso inesistente o sgranati nello stupore d’essere sfuggiti alla morte. Vedono il capo coperto delle donne e sanno che le donne sono ancora schiave di quegli uomini che girano per le strade con aria stranita.

Guardano sulla piazza le bottiglie di birra abbandonate negli angoli, i resti carbonizzati di banchetti e panni stesi al sole. L’ombra pungente di un’opunzia, carica di frutti che cadono marci sull’asfalto, alimenta l’illusione di coloro che sono giunti da lontano, d’essersi incontrati nella piazza di una città vicina alla loro terra.

Della loro terra rimpiangono i suoni e i colori. Per non dimenticare ascoltano la musica che vibra tra le mura sottili. E anche tutto il quartiere vibra dei suoni e dei profumi come una nave che sta virando verso le loro terre lontane.

Coloro che al tramonto una volta s’imbarcavano con i loro amori clandestini, vengono ancora da altri quartieri. Salgono in auto come su una traghetto. Girano nelle stive in cerca d’un parcheggio. Non cercano le proprie figlie ma guardano le ragazze adolescenti dal colore del rame o i ragazzi brasiliani, che hanno sulle labbra la voglia d’essere baciati e i seni che promettono oscuri piaceri.

Basta sorridere, chiedere che si lascino ammirare, che si lascino tenere per mano. E poi lasciano che alle ragazze, nel chiuso delle stanze soffocanti di muffa, scorrano le lacrime sulle ceneri delle illusioni.

I ragazzi del Brasile sognano sempre i loro amori impossibili, li cantano a squarciagola e danzano con movenze del ventre.

Le ragazze abbandonate li guardano sorridono e accendono di vita le loro labbra spente.

Dal divano verde

Edouard_Manet_-_Luncheon_on_the_Grass rit

Edouard Manet, Le Déjeuner sur l’herbe, 1863

Sono felice di ripresentare questi versi (l’originale è alla fine) nella graditissima
traduzione di Raia Artamia blogger di iwantyouhappy, che ringrazio di cuore.

FROM MY GREEN SOFA
. . . . . . . . . . to Matteo Salvini
.
In the evening I lay on the sofa
green-lawn that my grandparents trampled on
when they sat down to diner
like the sons of Manet with two maidens – the one who washes her feet
by the lake and the other, however, all dressed up by
not embarrassing the kids who run around the house.
I watch the news. My interest is in internal
and international affairs. I listen without doing anything,
without even thinking. Even not looking at the screen.
I’m tough. I don’t get influenced. But the heart
sometimes escapes my control.
I need to stay awake to follow the news.
Sometimes it swerves like a kite flying high
and I follow it. But I always look where it landed.
Can you imagine one disappearing from the sight?
Even the heart is a good woman kid
who stops to listen.
Someone mutters in the middle of the green sea
that a boat capsized and other boat helped it.
I watch. The ship moves away like a yellow spot
seen from a helicopter.
It moves towards the land and seems to be O.K.
The guards step on pier with the collected bodies.
Someone counts the missing and the drowned.
The wide open eyes of a black woman,
of around forty years old, are staring from the screen.
Their white corneas shine like two milk stains
– in disbelief that the sea has betrayed her.
She kidnapped her children and now cradles them in her cold glass arms.
It’s embarrassing. No one must die so easily.
The flowers on my sofa have the warmth of the light cloud
that envelops my sadness with the glow of those eyes.
Not all ends well. Who doesn’t know it?
So we should avoid listening to our heart.

©:: traduz. Raia Artamia

La sera mi distendo sul divano
verde-prato che i miei nonni hanno calpestato
quando si sedevano a dejuner
assieme ai figli di Manet e le due fanciulle – quella che si rinfresca i piedi
sulla riva del lago e l’altra però tutta vestita
per non scandalizzare i piccoli che girano per casa.
Guardo i telegiornali. Il mio interesse sono gli affari interni
e la politica internazionale. Ascolto senza far nulla
senza neppure pensare. Non guardo mai lo schermo.
Sono rigoroso. Non voglio lasciarmi influenzare. Ma il cuore
a volte sfugge al mio controllo.
Bisogna che io stia sveglio e lo sorvegli.
Qualche volta sbanda come un aquilone che vola in alto
ed io gli vado dietro . Ma guardo sempre dove metto i piedi.
Lo immaginate uno che corre senza guardare?
Anche il cuore è un figlio di buona donna
che si ferma ad ascoltare.
Qualcuno borbotta in mezzo al mare verde
che una barca s’è rovesciata e qualcosa l’ha soccorsa.
Guardo. La nave si allontana come una macchia gialla
vista dall’elicottero.
Si muove verso terra e tutto sembra finito bene.
Le barelle scendono sul molo con i cadaveri recuperati.
Qualcuno enumera gli annegati e i dispersi.
Gli occhi sbarrati nel volto nero di una negra
di circa quarant’anni mi fissano dallo schermo.
Le sue cornee brillano come due macchie di latte
incredule per il mare che l’ha tradita.
Le ha rapito il figlio e adesso lo culla tra le sue braccia di vetro.
È imbarazzante. Nessuno deve morire con tanta facilità.
I fiori del mio divano hanno il tepore della nuvola leggera
che avvolge la mia tristezza col bagliore di quegli occhi.
Non tutto finisce bene. Chi non lo sa? Bisogna evitare
di dare retta al cuore.

 

Gli amori di Giacomo

Fanny_Targioni_Tozzetti

Fanny Targioni Tozzetti

Un amico comune mi ha detto che sorridi pensando al primo verso della mia poesia in cui chiamo ”donzelletta” quella campagnola “che vien dalla montagna” .

No, non mi offendo né voglio accusarti. Ti capisco. So bene che non è una critica alle mie poesie né al mio modo di pensare il mondo e la natura umana.

Immaginare di dire a una ragazza che è simile a una donzelletta oggi fa ridere, ne convengo. Sarebbe come paragonarla a una farfalletta un po’ sciocca, un po’ dimessa e dai colori un po’ sul grigio.
Ma per renderla ai tuoi occhi più credibile, prova per un attimo a caricare quell’espressione della carnalità con cui un giovane guarda una ragazza.

Oggi le donne mostrano tutte le forme del loro corpo e il ragazzo, guardando può carezzare ciò che gli riesce facile immaginare. Ma quando io ero giovane, incontrare una donna in strada era come vedere la luna scendere in terra e venirgli incontro. Al più incontravi delle popolane o campagnole o contadine o delle prostitute.

E non a tutti gli uomini era concesso guardarle come esseri umani se non addirittura come persone. Le donne erano quelle che indossavano gonne lunghe sino ai piedi. Ed erano madri o figlie o sorelle. Ed erano caste. Così sembrava di loro. Perché poi c’erano le amanti, dei più colti, dei più fantasiosi, dei più raffinati ma anche dei più rozzi, dei ricchi e dei potenti, nascoste o di dominio pubblico. E c’erano gli stupri di madri, sorelle, figlie di cui nessuno doveva sapere.

E i poeti? Cosa facevamo noi poeti? Quelli veri, quelli magari tristi come me, cosa dicevamo? Accusavamo i difetti e i limiti della società in cui vivevamo? Volavamo alti sulle miserie della società, ci chiudevamo nel solipsismo un po’ filosofico, salvo poi a sbandierare improbabili inni storico-patriottici rievocando e invocando un passato idealizzato e purificato.

In fondo non dovresti meravigliarti. Voi poeti di oggi, preda anche voi del solipsismo, ma ben più subdolo del mio, non fate altro che piangervi addosso, invocare amori perduti, inseguire ideali usurati e condivisi da una maggioranza credulona e ignorante. Chi siete nel chiuso delle vostre mura? Qual è il vostro carisma? Quale bagaglio di esperienze, culturali, sociali, morali vi portate sulle spalle? Cosa profetizzate? A volte ho la sensazione che credete in ciò che scrivete esclusivamente ai fini del comporre belle parole che suscitino emozioni fine a sé stesse.

No, non parlo di moralismo o di eticità della poesia, ma di trasmettere valori umani che si radichino nell’animo attraverso le emozioni che siano anelito alla conoscenza della realtà, in cui anche il poeta vive.

Come tutti i miei contemporanei colti, anche io ho sentito il bisogno di idealizzare l’immagine di quella ragazza, chiamandola donzelletta o, con maggiore affetto, Silvia.
Un affetto che mi sembra la faccia somigliare a una Beatrice, senza voglie, senza bramosie, se non quella di tessere e cantare. Ma non di reagire guardando in faccia il proprio destino i propri desideri .

E se i suoi occhi mi apparivano ridenti non potevo fare a meno di definirli anche fuggitivi, mentre schivi definivo gli sguardi che la concupivano .

Ho sottolineato questa fuggevolezza di sguardi per sottendere proprio quella difesa, tutta femminile di allora, ritenuta necessaria per sottrarsi a possibili maldicenze, a linciaggi morali, alle bramosie dell’uomo, a possibili stupri, per apparire in ogni caso casta.

E la canto da morta così da giustificare ai miei occhi immersi nel moralismo del tempo, il mio scrutare dalla finestra il suo vivere, i suoi gesti più intimi che, non lo nascondo, eccitavano i miei “amorosi sensi”. Avrei potuto cantare tutto questo impunemente?

E mi chiedo se davvero ho amato o solo desiderato la donna che credevo di amare. Mi chiedo se davvero sono stato rifiutato per la mia fisicità e non per il mio carattere chiuso, scontroso, altezzoso. Per il mio non saper accettare che una donna potesse avere dei desideri che prevaricavano, rifiutandolo, il mio solipsismo.

Temo che la mia ingiuria feroce verso l’unica donna viva, reale e di carne, che ho desiderato, e che deluso ho chiamato Aspasia, sia la prova che avvalora il mio dubbio.

Fanny era una donna che aveva fatto le sue scelte, aveva una sua vita, una famiglia, i suoi affetti, in cui io non potevo che restare ai margini. Per questo suo respingermi l’ho definita “allettatrice dotta”, quasi una puttana di rango, incapace di elevare il proprio spirito verso quella donna ideale che mi ero costruito. Lei, come tutte donne con le loro “anguste fronti”, non era stata capace di arrivare a tanto. E mi sono rifiutato di comprenderla e accettarla, perché è l’uomo che “nei corporali amplessi, inchina ed ama” la donna. È della donna il dovere di chinarsi e subire. Ma non era in grado di comprendermi, non voleva sottomettersi alle mie brame, non voleva cedere alla mia supremazia intellettuale. Nell’impeto della rabbia e delusione le ho dedicato versi che oggi definisco terribili. Ma che allora rispecchiavano il mio pensiero e il pensiero degli uomini del mio tempo:

….Male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
più che virili, in chi dell’uomo, al tutto
da natura è minor. Che se più molli
e più tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.

Eppure mi chiedo ancora cosa si celasse nella mia anima per paragonare la donna amata a una cortigiana dotta che ha fatto innamorare Pericle, stratego di Atene, per la sua saggezza e abilità politica. Non riuscivo a sopprimere l’ammirazione per l’intelligenza di quella donna?
È questa la prova che ho amato solo la fantasia e la malinconia del mio desiderio d’amore? Quei versi colmi di rabbia accrescono il dubbio che mi tormenta maggiormente.

Ma così è stato. E allora “donzelletta” è un’espressione più che appropriata. E più che appropriata è la pietà che nutro nelle mie poesie, verso gli eroi, verso la natura, verso la morte. Senza un’incitazione alla ribellione, senza un cenno di rifiuto che non si concluda in un’invocazione remissiva o in’espressione stizzosa se non rancorosa.

Ma tu che sorridi della “donzelletta”, tu che hai deciso di vivere nel disinganno, prima addirittura che ti pervada il brivido amaro della disillusione, come raffiguri le donne, quelle che non ti hanno compreso, quelle che ti hanno abbandonato, quelle che ti hanno rifiutato? Come riesci a giustificare la tua vita, le sconfitte subite, le umiliazioni ricevute, a tollerare le ingiustizie, a condannare l’odio, senza una filosofia per la quale tutto è vano e insufficiente e la natura una nemica delle aspirazioni degli uomini?

Saprai rispondermi?

Con stima,Risultati immagini per firma di giacomo leopardi

Ascolta & Leggi: Battisti/Panella e sei poesie ermetiche.

Per la squisita gentilezza di Flavio Almerighi, eccomi indegnamente tra i Grandi!

almerighi

Marcello Comitini – Il Gelsomino

I fine settimana estivi sono giorni
colmi di silenzio. Sono partiti
e i loro passi riempiono ancora la strada
di quell’andare avanti e indietro
per stipare la roba, e le brevi risate,
qualche sillaba gridata, gli schianti soffocati
delle portiere, le scie colorate
che si allontanano
come un film muto di altri tempi.
Ad ogni angolo il vuoto che il sole scandaglia
e nel contrasto duro tra luce e ombra
tutto muta in bianco e nero.
Rade figure camminano solitarie.
Un vecchio in canottiera
siede all’ombra di un albero, un gatto
disteso al centro della strada lecca
con dolcezza le zampe davanti. Nessun bambino
gioca, nessun latrato di cane
in lontananza. La polvere e le foglie
riarse giacciono tra muro e asfalto.
Il gelsomino acuisce il suo profumo, infuria
nei ricordi di chi è solo.

*

Giuseppe Ungaretti – Veglia

Un’intera nottata
buttato vicino
a…

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Negli occhi

occhi

traduzione dedicata a Daniela Cerrato

I

Alcuni occhi sono climi nudi in paesi di ghiaccio,
dove si cammina senza sentieri nell’ignoto;
Altri, come sere di periferia piene di fumi
dove passano gli uccelli dalle ali implumi
che danno loro sguardi languidi e palpitanti;
Altri vuoti, ma sotto l’influenza del tempo
dove il mare della loro anima s’infrange in onde mute,
sono freschi, profondi, mobili come un’acqua,
flussi e riflussi del lento sguardo che rotea la sua perla!
Ma tutto vi traspare in un riflesso doppio e gemello:
alcuni custodiscono l’antico rosa di un tramonto rosato
che fu per loro un momento essenziale d’amore
e si sfogliava in essi come una grande rosa;
altri sono blu per aver guardato tanto il cielo,
e, se altri sono ancora blu, è perché rimane dell’incenso.
Poi in alcuni – nascondigli difficili – vi sono
degli antichi gioielli, degli alberi alti, un campanile triste,
dei visi che una grande assenza dissolve,
abiti fuori moda di un bambino morto, campane,
e angeli di cui s’indovina la vicinanza
vedendo, negli occhi che se ne sono colmati,
il loro abito pieghettato come un organo dalle lunghe canne.
Ah! gli occhi! tutti gli occhi! tanti riflessi postumi!
Reliquiari del sangue di ogni sera calante;
Bacheca dove ogni sposalizio ha affisso la notizia;
Luoghi in cui ogni autunno ha lasciato le sue nebbie.
Occhi! crocevia di tutti gli scopi che vi si riassumono;
Finestre dell’infinito; calma conclusione;
Perché tutto converge in questi vetri di carne perlacea,
specchi viventi in cui l’Universo si ricrea.

 

George Rodenbach,  Viaggio negli occhi, in Les Vies Encloses, Bibliothèque-Charpentier, 1896

Traduzione di Marcello Comitini

 

I

Tels yeux sont des pays de glace, un climat nu
Où l’on chemine sans chemins dans l’inconnu ;
D’autres, des soirs de province pleins de fumées
Où passent des oiseaux aux ailes déplumées
Qui leur font ces plaintifs regards intermittents ;
D’autres vides, mais sous l’influence du temps,
Où la mer de leur âme à flots muets déferle,
Sont rafraîchis, profonds, mobiles comme une eau,
Flux et reflux du lent regard roulant sa perle !
Or tout s’y mire en un reflet double et jumeau :
Ceux-ci gardent le rose ancien d’un couchant rose
Qui leur fut un moment d’amour essentiel
Et s’effeuilla dans eux comme une vaste rose ;
Ceux-là sont bleus d’avoir tant regardé le ciel,
Et, si ceux-ci sont bleus, c’est d’encens qui subsiste.
Puis en d’autres – recels compliqués – il y a
De vieux bijoux, de grands arbres, un clocher triste,
Des visages que trop d’absence délaya,
Des linges démodés d’enfant morte, des cloches,
Et des anges dont on devine les approches
À voir, au fil des yeux qui s’en sont tout remplis,
Leur robe comme un orgue aux longs tuyaux de plis.
Ah ! les yeux ! tous les yeux ! tant de reflets posthumes !
Reliquaires du sang de tous les soirs tombants ;
Chaires où toute noce a promulgué ses bans ;
Sites où chaque automne a légué de ses brumes.
Yeux ! carrefours de tous les buts s’y résumant ;
Fenêtres d’infini ; calme aboutissement ;
Car tout converge à ces vitres de chair nacrée,
Miroirs vivants en qui l’Univers se recrée.

 

George Rodenbach,  Le Voyage dans les Yeux, en Les Vies Encloses, Bibliothèque-Charpentier, 1896

Il gelsomino

Edward Hopper x Il gelsominopic

Edwad Hopper (manipolato da me)

I fine settimana estivi sono giorni
colmi di silenzio. Sono partiti
e i loro passi riempiono ancora la strada
di quell’andare avanti e indietro
per stipare la roba, e le brevi risate,
qualche sillaba gridata, gli schianti soffocati
delle portiere, le scie colorate
che si allontanano
come in un film sfocato di altri tempi.
Ad ogni angolo il vuoto che il sole scandaglia
e nel contrasto duro tra luce e ombra
tutto muta in bianco e nero.
Rade figure camminano solitarie.
Un vecchio in canottiera
siede all’ombra di un albero, un gatto
disteso al centro della strada si lecca
con dolcezza la zampa. Nessun bambino
gioca, nessun latrato di cane
in lontananza. La polvere e le foglie
riarse giacciono tra muro e asfalto.
Il gelsomino acuisce il suo profumo, infuria
nei ricordi di chi è solo.