Occhi ignoti
come foglie quiete legate a questi rami
scrutano nel buio dentro i cuori
cedono al gioco d’enumerare i loro amori.
Tenere foglie brillano
strappate dal vento ai fogli bianchi di parole.
Cinque sono cadute ai piedi
di un uomo in cerca di qualcosa
che le raccoglie e se le pone al petto
sul cuore sul ventre sulle labbra che ridono
sugli occhi che vedono oltre il suo domani.
E si allontana col suo passo fiero.
Ancora le più belle sono rimaste ai rami del tempo
appese come bacche o frutti
dell’albero che rosseggia nel settembre
o come stelle del mio oscuro cielo.
Seduto sulla soglia
con le ginocchia strette tra le braccia
un futuro sogno appare o l’ombra di un amore
mentre alle spalle suona l’eco della gioventù
che appena
il suo grido ha spento.
Cammino a capo chino
il sole appena all’orizzonte
i sogni ancora addormentati tra le mani.
Riappare non placato il dolore per la fuga
dei compagni delusi
dalla mia paura
d’animale violato nella tana,
di vittima che apprende lentamente
la troppa brevità dei giorni
per essere sprecati.
Il coraggio che manca – mi ripeto
passandomi le mani ancora tiepide sul viso –
la vita non lo insegna.
In silenzio mi raccolgo
nel chiuso della mia prigione
Lettura di Luigi Maria Corsanico – Fotografie di L.M. Corsanico
Vieni, Notte antichissima e identica, Notte Regina nata detronizzata, Notte internamente uguale al silenzio, Notte con le stelle, lustrini rapidi sul tuo vestito frangiato di Infinito. Vieni vagamente, vieni lievemente, vieni sola, solenne, con le mani cadute lungo i fianchi, vieni e porta i lontani monti a ridosso degli alberi vicini, fondi in un campo tuo tutti i campi che vedo, fai della montagna un solo blocco del tuo corpo, cancella in essa tutte le differenze che vedo da lontano di giorno, tutte le strade che la salgono, tutti i vari alberi che la fanno verde scuro in lontananza, tutte le case bianche che fumano fra gli alberi e lascia solo una luce, un’altra luce e un’altra ancora, nella distanza imprecisa e vagamente perturbatrice, nella distanza subitamente impossibile da percorrere. Nostra Signora delle cose impossibili che cerchiamo invano, dei sogni che ci visitano al crepuscolo, alla finestra, dei propositi che ci accarezzano sulle ampie terrazze degli alberghi cosmopoliti sul mare, al suono europeo delle musiche e delle voci lontane e vicine, e che ci dolgono perché sappiamo che mai li realizzeremo. Vieni e cullaci, vieni e consolaci, baciaci silenziosamente sulla fronte, cosi lievemente sulla fronte che non ci accorgiamo d’essere baciati se non per una differenza nell’anima e un vago singulto che parte misericordiosamente dall’antichissimo di noi laddove hanno radici quegli alberi di meraviglia i cui frutti sono i sogni che culliamo e amiamo, perché li sappiamo senza relazione con ciò che ci può essere nella vita. Vieni solennissima, solennissima e colma di una nascosta voglia di singhiozzare, forse perché grande è l’anima e piccola è la vita, e non tutti i gesti possono uscire dal nostro corpo, e arriviamo solo fin dove arriva il nostro braccio e vediamo solo fin dove vede il nostro sguardo. Vieni, dolorosa, Mater Dolorosa delle Angosce dei Timidi, Turris Eburnea delle Tristezze dei Disprezzati, fresca mano sulla fronte-febbricitante degli Umili, sapore d’acqua di fonte sulle labbra riarse degli Stanchi. Vieni, dal fondo dell’orizzonte livido, vieni e strappami dal suolo dell’angustia in cui io vegeto, dal suolo di inquietudine e vita-di-troppo e false sensazioni dal quale naturalmente sono spuntato. Coglimi dal mio suolo, margherita trascurata, e fra erbe alte margherita ombreggiata, petalo per petalo leggi in me non so quale destino e sfogliami per il tuo piacere, per il tuo piacere silenzioso e fresco. Un petalo di me lancialo verso il Nord, dove sorgono le città di oggi il cui rumore ho amato come un corpo.
Un altro petalo di me lancialo verso il Sud dove sono i mari e le avventure che si sognano. Un altro petalo verso Occidente, dove brucia incandescente tutto ciò che forse è il futuro, e ci sono rumori di grandi macchine e grandi deserti rocciosi dove le anime inselvatichiscono e la morale non arriva. E l’altro, gli altri, tutti gli altri petali – oh occulto rintocco di campane a martello nella mia anima! – affidali all’Oriente, l’Oriente da cui viene tutto, il giorno e la fede, l’Oriente pomposo e fanatico e caldo, l’Oriente eccessivo che io non vedrò mai, l’Oriente buddhista, bramanico, scintoista, l’Oriente che è tutto quanto noi non abbiamo, tutto quanto noi non siamo, l’Oriente dove – chissà – forse ancor oggi vive Cristo, dove forse Dio esiste corporalmente imperando su tutto.. Vieni sopra i mari, sopra i mari maggiori, sopra il mare dagli orizzonti incerti, vieni e passa la mano sul suo dorso ferino, e calmalo misteriosamente, o domatrice ipnotica delle cose brulicanti! Vieni, premurosa, vieni, materna, in punta di piedi, infermiera antichissima che ti sedesti al capezzale degli dei delle fedi ormai perdute, e che vedesti nascere Geova e Giove, e sorridesti perché per te tutto è falso, salvo la tenebra e il silenzio, e il grande Spazio Misterioso al di la di essi.. Vieni, Notte silenziosa ed estatica, avvolgi nel tuo mantello leggero il mio cuore… Serenamente, come una brezza nella sera lenta, tranquillamente, come un gesto materno che rassicura, con le stelle che brillano (o Travestita dell’Oltre!), polvere di oro sui tuoi capelli neri, e la luna calante, maschera misteriosa sul tuo volto. Tutti i suoni suonano in un altro modo quando tu giungi Quando tu entri ogni voce si abbassa Nessuno ti vede entrare Nessuno si accorge di quando sei entrata, se non all’improvviso, nel vedere che tutto si raccoglie, che tutto perde i contorni e i colori, e che nel cielo alto, ancora chiaramente azzurro e bianco all’orizzonte, già falce nitida, o circolo giallastro, o mero diffuso biancore, la luna comincia il suo giorno.
Fernando Pessoa, Poesie di Álvaro de Campos, a cura di Maria José de Lancastre, traduzione di Antonio Tabucchi, Biblioteca Adelphi, 1993.
Ancora tremante sotto la pelle delle tenebre ogni mattina devo ricomporre un uomo con tutta la miscela dei miei giorni precedenti e il poco che mi rimane dei giorni a venire.
Eccomi tutto intero andare verso la finestra.
Luce di questo giorno, io vengo dal fondo dei tempi, rispetta con dolcezza i miei minuti oscuri, risparmia ancora un po’ quel che ho di notturno, di stellato dentro e di pronto a morire sotto il sole che sorge che sa soltanto crescere.
Jules Supervielle, tratto da La Fable du Monde 1938 (traduzione di Marcello Comitini)
Encore frissonnant Sous la peau des ténèbres Tous les matins je dois Recomposer un homme Avec tout ce mélange De mes jours précédents Et le peu qui me reste De mes jours à venir.
Me voici tout entier , Je vais vers la fenêtre.
Lumière de ce jour, Je viens du fond des temps, Respecte avec douceur Mes minutes obscures, Épargne encore un peu Ce que j ai de nocturne, D’étoilé en dedans Et de prêt à mourir Sous le soleil montant Qui ne sait que grandir.”
Jules Supervielle, La Fable du Monde, Edition NRF Poesie/Gallimard, 1987
Alla luce della luna sospesa sul giardino come una lampadina pallida che illumina la vastità fiorita di un balcone offri le spalle nude alla rugiada della notte e spargi dalle mani l’acqua iridescente degli dei.
Ti smarrisci inquieta tra le onde dei profumi scruti nella penombra con lo sguardo ansioso versi in ogni vaso quelle poche gocce che a mala pena estinguono l’arsura.
Ti parla all’improvviso e non sai da dove qualcosa d’armoniosamente puro un odore tiepido di terra o di pioggia.
Cosa ti trattiene? Di cosa smani ancora? – sussurra nel silenzio la voce che s’infrange come una preghiera tra estasi e subbuglio – La tua incertezza spezza l’armonia del giardino in fiore e della luna bianca. In te s’innestano oscuramente forti nel disordine imperioso del dolore il ramo della vita e le radici di un’antica gioia. Nel buio non attendono le poche lacrime di una pietà fugace e la vita cerca nella luce chiara l’incanto di corolle profumate, accese nella notte da rituali eterni come le stelle che schiudi dai tuoi occhi.
Mentre intorno a te fiorisce il mondo e la mia voce che t’insegue.
Questa giornata ha il vento che dissolve
nel turbinio di sguardi malinconici e di abbracci
i raggi del sole che sin qui hanno scaldato
la sabbia dorata dei nostri corpi insonnoliti.
Decrepita tristezza che scivola sul cuore
assieme alla parola che allontana sulle ali di una rondine
la tenerezza delle carni al tatto e all’occhio.
Resta il sorriso – ghiaccio sulle labbra inebetite –
che accompagna silenzioso la memoria.
Sarei voluto essere uno di quei cavalieri del Medioevo, chiusi in una ermetica corazza, che affrontavano la morte certi di vincerla.
Poi la morte si presentava di fronte, aveva il volto del nemico o la spietata impenetrabilità di una visiera abbassata a proteggerne il viso.
Partivano a testa alta offrendo il petto consapevoli che la loro vita avesse l’unico scopo di morire per qualcuno o per qualcosa, morire in giovane età senza rimpianti di ciò che non si era mai provato né conosciuto.
Morire come tutto nella natura muore, senza meditarci sopra, senza recriminazioni e senza paura dell’incognita di un aldilà.
Noi oggi che riteniamo il Medioevo un’epoca d’ignoranti barbarie, e ci crediamo migliori della natura, più intelligenti e preparati, abbiamo per questo paura non solo della morte ma di tutto ciò che ci circonda di cui non conosciamo a fondo le meccaniche.
E riempiamo i vuoti della nostra conoscenza (e gli abissi della nostra ignoranza) con i fantasmi di tutto quel che vorremmo possedere. E sono fantasmi d’amore, sono speranze, sono miti che sogneremo sempre e nei quali sempre c’identificheremo..
Così sin da piccoli ci prepariamo a lottare per amore, per la carriera, per un’esistenza gloriosa, almeno ai nostri occhi. E piangiamo e soffriamo quando non si avverano o quando ci assale il timore che li abbiamo perduti per sempre. È questa una lotta in cui è solo l’avversario ad indossare la corazza contro cui andiamo felicemente o spietatamente a cozzare.
Ma sta qui tutta la contraddizione del nostro vivere, della nostra civiltà.
Più lo scontro sarà improvviso, repentino e veloce, più ci diranno simili ai cavalieri del Medioevo: coraggiosi e spavaldi. E ci piangeranno come degli eroi precocemente rapiti.
Quando mia sorella l’invitò
ed io andai ad aprirle la porta,
entrò il sole, entrarono le stelle,
entrarono due trecce di frumento
e due occhi interminabili.
Avevo quattordici anni
ed ero orgogliosamente misterioso,
magro, chiuso e aggrottato,
funereo e cerimonioso:
vivevo con i ragni,
inumidito dal bosco,
mi conoscevano i coleotteri
e le api tricolori,
dormivo con le pernici
sommerso fra la menta.
Dunque entrò la Guglielmina
con due lampi azzurri
che mi attraversarono i capelli
e m’inchiodarono come spade
contro i muri dell’inverno.
Questo accadde a Temuco.
Là nel sud alla frontiera.
Gli anni sono passati lentamente
calpestando come pachidermi,
latrando come volpi pazze,
sono passati gli anni impuri
incompleti, laceri mortuari,
e andai di nube in nube,
di terra in terra, di ponte in ponte
mentre la pioggia alla frontiera
cadeva con il medesimo vestito.
Il mio cuore ha camminato
con scarpe tutte sue,
ha digerito le spine:
non mi dettero tregua dove mi trovavo:
dove rimasi mi trattennero,
dove mi uccisero caddi
e sono risorto con freschezza,
e poi e poi e poi e poi
è davvero lungo narrare le cose.
Non ho altro da aggiungere
Venni a vivere in questo mondo.
Dove sarà la Guglielmina?
Pablo Neruda, Stravagario, (traduzione marcello comitini)