
Carlo Carrà – Le nuotatrici
(a Tina)
I due uomini fumano a riva. La donna che nuota
senza rompere l’acqua, non vede che il verde
del suo breve orizzonte. Tra il cielo e le piante
si distende quest’acqua e la donna vi scorre
senza corpo. Nel cielo si posano nuvole
come immobili. Il fumo si ferma a mezz’aria.
Sotto il gelo dell’acqua c’è l’erba. La donna
vi trascorre sospesa; ma noi la schiacciamo,
l’erba verde, col corpo. Non c’è lungo le acque
altro peso. Noi soli sentiamo la terra.
Forse il corpo allungato di lei, che è sommerso,
sente l’avido gelo assorbirle il torpore
delle membra assolate e discioglierla viva
nell’immobile verde. Il suo capo non muove.
Era stesa anche lei, dove l’erba è piegata.
Il suo volto socchiuso posava sul braccio
e guardava nell’erba. Nessuno fiatava.
Stagna ancora nell’aria quel primo sciacquío
che l’ha accolta nell’acqua. Su noi stagna il fumo.
Ora è giunta alla riva e ci parla, stillante
nel suo corpo annerito che sorge fra i tronchi.
La sua voce è ben l’unico suono che si ode sull’acqua
– rauca e fresca, è la voce di prima.
Pensiamo, distesi
sulla riva, a quel verde piú cupo e piú fresco
che ha sommerso il suo corpo. Poi, uno di noi
piomba in acqua e traversa, scoprendo le spalle
in bracciate schiumose, l’immobile verde.
il grande Pavese di Lavorare Stanca, fedele sempre alle sue origini e a quei luoghi che ogni volta che abbandona gli mancano incredibilmente; il suo sentirsi parte della terra,quella che sporca che sa di sudore di terra di erba e fango mi ha sempre affascinata; e in questa poesia gli elementi della natura sono i protagonisti insieme ai corpi che vi si adagiano,la schiacciano, la ritrovano dopo una nuotata…
bella proposta Marcello,buona giornata
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Ti ringrazio per quello che hai scritto di Cesare Pavese, del suo attaccamento alle sue origini e della nostalgie che ne prova se lontano. Io considero Cesare Pavese il mio fratello maggiore, in personalità ovviamente, che mi ha preso per mano e mi ha insegnato le regole del disinganno, lui che era stato ingannato e deluso fin troppe volte, come uomo, come scrittore e come poeta, lui che aveva trovato le sue vere radici letterarie nelle opere di grandi autori stranieri (Melville, per esempio o Whitman) e che volle rendere alla tradizione italiana, attraverso le sue traduzioni. Lui che ha sofferto le pene dell’inferno procurategli dal suo stesso temperamento e dai suoi impossibili ideali. Di tutte queste cose anch’io ho sofferto e soffro, ma lo tengo stretto per mano e stringendola sento la sua esperienza a farmi da guida.
Grazie, Daniela. Buona giornata anche a te.
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grazie a te Marcello, a presto a stretto giro di posta 😉
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Bella poesia davvero. Però con la poesia faccio sempre un po’ fatica. Come devo capire? Situazione reale > simbolo > situazione reale > simbolo? Mi pare che la riva, occupata dai due uomini “che schiacciano l’erba col corpo”, indichi la realtà dura e pesante, mentre l’acqua in cui la donna quasi si discioglie sarebbe il luogo di un eros irraggiungibile e onirico. Però se la donna abbandona l’acqua ridiventa reale e “greve”, come quando “era stesa anche lei, dove l’erba è piegata”. Uno degli uomini si getta a sua volta nell’elemento fluido, ma lo traversa in un modo completamente diverso. O vedo cose che non ci sono?
Quello che mi piaceva di Pavese era questo trascorrere con naturalezza dal reale al simbolico; però è parecchio tempo che non lo leggo.
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La tua analisi mi sembra assai corretta. Forse sarebbe opportuno che nella sequenzialità da te espressa tra situazione reale e simbolo tu sostituisca quest’ultimo con fantasia, come lo stesso Poeta ha affermato. Nella fantasia Pavese vede la possibilità di creare sottintesi, mezze tinte, composizioni ricche di immagini, vivide, flessibili, pregnanti di vita fantastica come quelle presenti in questa poesia. Tuttavia quanto appena affermato non ha risposto all’altra tua domanda implicita: cosa si nasconde dentro le immagini fantastiche? Quali simboli si celano, ammesso che se ne celino? Io ritengo che a queste tue domande legittime, non possono essere date che risposte illegittime perché arbitrariamente fornite dall’individualismo di chi risponde. Per cui non posso limitarmi che a sottolineare che l’arte è tale quando la fantasia dell’autore riesce a sollecitare nei fruitori (lettori, spettatori) richiami a simboli individuali e tuttavia talmente diffusi e condivisi tra i fruitori sparsi nel tempo e nello spazio, da rendere tale fantasia universale.
Ben vengano allora quei commenti che giovino ad esplicitare, come hai fatto tu, anche se in forma dubitativa, i simboli suscitati proprio da quella sequenzialità di cui si diceva prima, affinché anche il fruitore distratto possa focalizzare elementi d’arte che vadano ben al di là della forma estetica.
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“l’arte è tale quando la fantasia dell’autore riesce a sollecitare nei fruitori (lettori, spettatori) richiami a simboli individuali e tuttavia talmente diffusi e condivisi tra i fruitori sparsi nel tempo e nello spazio, da rendere tale fantasia universale.” Sono perfettamente d’accordo. Le misteriose analogie su cui si fondano le corrispondenze baudelairiane dovrebbero garantire, in linea di principio, un carattere universale all’individualmente fruibile. Tuttavia la ricerca di sempre nuove e inedite metafore spinge pericolosamente la poesia contemporanea (o una parte di essa) verso un ermetismo che ha parecchio dell’arbitrario. Per questo dico che con la poesia faccio un po’ fatica. Tornando al testo di Pavese, mi pare che egli riesca nell’impresa di creare una lingua poetica nuova e molto efficace, riducendo al minimo la quantità di “oscurità” che pare imprescindibile nella poesia novecentesca. (Queste sono le considerazioni di una che a un certo punto ha smesso di leggere poesia perché non ci capiva niente – o perché cercare di capire avrebbe richiesto uno sforzo inconciliabile con la sua pigrizia di fondo).
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