Il mio quartiere è una nave

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Foto mia, Vista notturna del quartiere Inviolatella (Roma)

 

Il mio quartiere è una nave ancorata.

(brano già pubblicato. Ora riveduto e corretto)

Il mio quartiere è una nave ancorata che guarda dall’alto il mare verde dell’Inviolatella e degli Orti di Veio sulle sue onde di alberi e prati. Si protendono al cielo le ciminiere, le antenne e i radar sui palazzi e le strade.

In cima ai pennoni porta lo stemma di cuori liberi e affranti. I passeggeri che s’imbarcano dai moli di Roma salgono per due passerelle tortuose e ripide come sentieri di campagna.

Sul ponte le sue cabine sono l’una sull’altra come palazzi. Sono tenere alcove che ospitavano gli amori clandestini: s’imbarcavano in auto all’ora del tramonto indorato dal sole e andavano via a fari spenti nel cuore della notte come coloro che vengono da terre lontane e svaniscono inghiottiti dal buio. Adesso gli amori sono finiti. S’imbarcano coloro che vengono da terre lontane, salgono scendono, vanno via e svaniscono. Lasciano volti nuovi e portano via quelli vecchi.

Al piano terra d’un palazzo ci sono le stive, le sala macchine che fanno pulsare tutta la nave. Erano locali adibiti a supermercato messo in piedi per attrarre clienti sulla nave in procinto di salpare. Il supermercato è fallito e i locali sono stati divisi dagli scafisti di terra in cunicoli bui da dare in affitto a povera gente.

Il mio quartiere fa il giro del mondo e getta le ancore nel fondo dei tombini. Non ha bar, non ha boutique, non ha negozi dove comprare ciò che nessuno può comprare. Chiunque entra ed esce, va via e svanisce. Il mio quartiere non ha limiti. I suoi confini si sciolgono nelle pozzanghere che specchiano il cielo, con le nuvole che fuggono all’alitare del vento e si sperdono sui tetti dei palazzi. Nelle pozzanghere si specchiano i volti delle ragazze che non hanno altro modo per guardarsi se non sporgere il viso verso i riverberi del fango. Si specchiano i corpi ancheggianti dei ragazzi fuggiti dal Brasile che nei cunicoli, fatti nidi d’amore, hanno la libertà di mostrare i loro corpi di donna.

Il mio quartiere non ha limiti, i suoi confini si dissolvono mescolandosi lentamente al frastuono della città alle spalle. Non si arena sulle spiagge dove distendono al sole i cadaveri. Non s’incaglia fra le scogliere dove affondano le imbarcazioni che trasportano in equilibrio la speranza e la morte.

Ai moli della città lega spesso le funi di quelle piccole stanze soffocanti d’estate, maleodoranti di muffa e di freddo in inverno, che gli scafisti di terra hanno dato in affitto a coloro che sono giunti da lontano.

Dalle pareti granelli verdastri di muffa s’intrufolano come polvere nei polmoni e negli occhi. Nelle strade tutto appare tranquillo, i balconi sono vecchi cimiteri che traboccano d’oggetti dimenticati tra il cielo e la terra.

Quando coloro che sono giunti da lontano scendono in strada al mattino, dai loro volti straniti traspare la stanchezza d’avere smaniato per un sonno che non è mai arrivato, tutti ammucchiati nello stesso letto, l’amarezza d’aver fatto all’amore violando il sonno dei figli, d’aver negato ai propri desideri il diritto di desiderare.

Nulla appare agli occhi di coloro che sono nati qui, simili a eterni capitani della nave, perché i loro occhi vedono solo sé stessi o solo quelli degli altri nati qui come loro.
Di quelli giunti da lontano vedono il colore diverso della pelle, il biancore scheletrico dei denti, il taglio degli occhi stretti in un sorriso inesistente o sgranati nello stupore d’essere sfuggiti alla morte. Vedono il capo coperto delle donne e sanno che le donne sono ancora schiave di quegli uomini che girano per le strade con aria stranita.

Guardano sulla piazza le bottiglie di birra abbandonate negli angoli, i resti carbonizzati di banchetti e panni stesi al sole. L’ombra pungente di un’opunzia, carica di frutti che cadono marci sull’asfalto, alimenta l’illusione di coloro che sono giunti da lontano, d’essersi incontrati nella piazza di una città vicina alla loro terra.

Della loro terra rimpiangono i suoni e i colori. Per non dimenticare ascoltano la musica che vibra tra le mura sottili. E anche tutto il quartiere vibra dei suoni e dei profumi come una nave che sta virando verso le loro terre lontane.

Coloro che al tramonto una volta s’imbarcavano con i loro amori clandestini, vengono ancora da altri quartieri. Salgono in auto come su una traghetto. Girano nelle stive in cerca d’un parcheggio. Non cercano le proprie figlie ma guardano le ragazze adolescenti dal colore del rame o i ragazzi brasiliani, che hanno sulle labbra la voglia d’essere baciati e i seni che promettono oscuri piaceri.

Basta sorridere, chiedere che si lascino ammirare, che si lascino tenere per mano. E poi lasciano che alle ragazze, nel chiuso delle stanze soffocanti di muffa, scorrano le lacrime sulle ceneri delle illusioni.

I ragazzi del Brasile sognano sempre i loro amori impossibili, li cantano a squarciagola e danzano con movenze del ventre.

Le ragazze abbandonate li guardano sorridono e accendono di vita le loro labbra spente.

26 pensieri su “Il mio quartiere è una nave

  1. Il tuo quartiere sembra veramente una nave. Quanta fantasia nelle tue parole e quanta desolazione. Per chi vive nella propria oasi di pace non puo’ o forse non vuole immaginare quanta tristezza c’è nel mondo. Hai parlato di persone sfuggite alla guerra, alla miseria della loro terra ma cosa hanno trovato qua? Sei bravo nel trovare fiumi di parole che scaturiscono dal profondo del tuo cuore. Al prossimo racconto. Buon weekend 🤗

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  2. Pingback: Il mio quartiere è una nave — marcellocomitini | l'eta' della innocenza

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