Il peso della farfalla

Rosanna Nardon_il bosco delle farfalle

Rosanna Nardon, Il bosco delle farfalle, 2010

Ogni giorno mi offrono uno spettacolo diverso le mail che Claudia mi manda. Le apro e sullo schermo appaiono immagini di giardini fioriti o ampi panorami di prati invasi da farfalle con le ali spalancate su esili steli o sui petali dei fiori, pronte a fuggire e a confondere il cielo con i loro disegni variopinti. Ogni giorno una mail senza una riga di spiegazione. Semmai il nome delle specie (colis, melitaca o arcania, fra quelli che ricordo) scritto a caratteri corsivi, piccoli, appena sotto ciascuna immagine, come un breve promemoria, una nota a margine, per dare un segno di concretezza a quelle fantasie variopinte.
È da una settimana che le ricevo.
Le avevo ritenute come un suo voler sottolineare la propria leggerezza che le permetterebbe di volare al contrario della pesantezza del mio immobilismo. Mi sono sempre rifiutato di credere che intendesse sottolineare la relazione tra i suoi ventuno anni e i miei trentasette.
Prima Claudia aveva l’abitudine di attaccare un post-it sulla facciata esterna della porta di casa. La sera al mio rientro l’opaco colore giallino su cui si incrociavano delle linee a formare un rete, sembrava segnalarmi un pericolo o un impedimento o un ostacolo. Con un vago senso di angoscia varcavo la soglia e mi ritrovavo Claudia davanti appoggiata alla parete di fronte alla porta d’ingresso, i capelli lievemente scompigliati, le braccia incrociate sul petto, gli occhi fissi su di me come volesse dirmi qualcosa. Sopra di lei un grande disegno a sanguigna di due volti femminili su fondo color paglia: uno di profilo con lo sguardo corrucciato e i capelli grigi raccolti dietro la nuca, l’altro di fronte, nell’atto di urlare di rabbia e una lunga capigliatura sciolta sulle spalle. Con voce rassegnata mi chiedeva: “l’hai visto?”. Io le mostravo il post-it sulla punta delle dita e accennavo gravemente di sì col capo. Lei con un sospiro abbassava gli occhi come a guardarsi il grembo. Allora iniziavo a raccontarle la mia giornata di lavoro senza riprendere fiato.
Adesso ogni giorno le farfalle e ancora la sua attesa sotto quel quadro. E ancora la mia angoscia.
Quando ci siamo conosciuti, Claudia era invaghita di tutto ciò che produceva musica, danzava da sola, rideva di un’allegria infantile, amava essere corteggiata. Era un po’ impudica nella sua femminilità. Ma proprio quella sfrontatezza, quella sua compiacenza nel mostrasi, a volte nuda, mi aveva conquistato.
Ci vedevamo ogni sera. Ci raccontavamo di noi stessi, ma soprattutto era lei a raccontarmi dei suoi studi, degli amici, del suo ragazzo, della sua incapacità a resistergli quando si faceva insistente e pretendeva l’amore anche quando lei non voleva. L’ascoltavo, la confortavo, spesso le asciugavo le lacrime di un pianto silenzioso. A volte mi chiedeva ridendo se provassi per lei più il piacere di desiderarla che il disappunto di saperla di un altro.
A volte mi provocava lasciando la porta aperta quando andava in bagno e con lo sguardo assorto sedeva sul water, come se io non ci fossi, oppure con la fronte lievemente corrucciata e lo sguardo divertito, mi chiedeva se il profilo dei suoi seni fosse perfetto, se la peluria del suo pube le guastasse l’armonia dei suoi sedici anni appena compiuti. Non ho mai risposto alle sue domande. Non osavo toccarla né lei m’incoraggiava. Ma sentivo che ogni giorno si andava legando a me con l’orgoglio della ragazza ammirata da un uomo di trentadue anni.
Il mio starle accanto ha esercitato su di lei una pressione garbata, soprattutto in questi ultimi tre anni di convivenza. La sua spontaneità si è trasformata lentamente in consapevolezza del suo ruolo, delle sue responsabilità. Niente risate fuori posto. Molto meno musica.
Rimane adesso in me quel senso di angoscia per le sue mail come per i suoi post-it e per tutto il silenzio indecifrabile che accompagna questi segnali. Mi martellano, mi ributtano indietro nel tempo in cui lei viveva nella sua libertà ed io temevo di perderla. Mi è sorto tante volte il desiderio di chiedergliene il senso, di scrutare in fondo ai suoi occhi a cercare il segreto di tanto silenzio. Ma non voglio suscitare pensieri che non ha. Forse il suo – mi dico – è solo un gioco, un gioco di luci e di colori, un gioco di sogni che si librano nella sua mente. E poi mi sorgono questi dubbi durante la sera, che è il solo momento della giornata in cui stiamo insieme. Quando facciamo l’amore, la guardo e ho paura. Quando mi parla, le sue parole mi giungono da dietro una lastra di vetro su cui scorre un velo sottile e uniforme di acqua gelida, come se in fondo al suo animo stagnasse una sensazione di solitudine, di smarrimento. Non so quello che pensa, quello che potrebbe dire e che non le ho mai lasciato dire. Forse non le ho mai lasciato fare. Non posso fermare questo suo fluire in oscuri sogni. I suoi occhi non mi guardano. Ho paura di restare solo. Sì, ho paura. Ho paura dei suoi sorrisi, del suo giacermi remissiva tra le braccia, del suo volto illuminato da una luce che ne esalta i lineamenti, come le ali delle farfalle che riempiono le sue mail e sono pronte a volare per confondere il cielo. Ho paura del suo desiderio di ritrovarsi.
Oggi – ho deciso – non aprirò la mail. Tra le dieci e mezzo e le undici, non appena me l’avrà inviata, tornerò a casa. Non la troverò sotto quel terribile quadro. Non sarò assalito dall’angoscia. La cercherò per le stanze, l’abbraccerò senza dirle nulla e lei si abbandonerà lentamente alle mie carezze. Sarà come sempre tra le mie braccia. Avrà il peso di una farfalla. Le sorriderò. Vedrò finalmente i suoi occhi guardarmi, interrogare, chiedermi ancora una volta di proteggerla. Sentirò le sue ali tra le mie dita, la penetrerò dove la vena le attraversa diafana e azzurrina l’inguine, con una lama lunga e sottile. Spalancherà le braccia, dischiuderà le labbra. La terrò stretta. La custodirò dentro il sigillo di vetro del mio cuore.

45 pensieri su “Il peso della farfalla

      • Perfettamente d’accordo, Giuliana. Nel suo commento Nosce Sauton ha messo in evidenza quanto siano inafferrabili le emozioni e quindi i sentimenti. E tu fai riferimento alla paura che è quella che mi perseguita da una vita e che io chiamo “sindrome dell’abbandono”.

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      • Alcuni hanno piu’ bisogno di altri da piccoli, altri hanno maggiori risorse rispetto ad altri. Mia madre non era affatto una persona affettuosa ed espansiva, di questo mia sorella ne ha sofferto tanto e ancor oggi a 66 anni ne parla con le lacrime agli occhi. Io ho cercato altrove e crescendo ho capito che mia madre non poteva essere diversa da come era e che comunque dobbiamo costruirci la nostra vita sulle basi dell’amore che e’ in noi e non da quello che ci viene dato (anche se essere amati nella giusta maniera aiuterebbe molto)

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      • Ma se quel che ci viene dato somiglia molto più a minacce e bastonate? Credo che in questo caso un ragazzino non abbia a chi rivolgersi (soprattutto ai nostri tempi) se non a quell’ipotetico amore che, giunto all’età dell’adolescenza, cercherà disperatamente (perché l’amore è una sete inestinguibile) in chi glielo toglierà sistematicamente per immaturità, per incompatibilità o per uno qualsiasi dei motivi per cui due adolescenti prima e due adulti dopo si lasciano.

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      • Gia’, le risorse o uno se le trova da se’ o son guai. Da adulti pero’ bisognerebbe capire per farsene una ragione e metterci una pietra sopra altrimenti la vita e’ un incubo continuo.

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  1. Quant’è inafferrabile l’emozione umana alle spiegazioni logiche…
    Alla fine, ci si può avvicinare solo attraverso la poesia.
    Sento trasparire il patimento del protagonista, capace di osservare e di cogliere, l’inafferrabilità della sua musa.

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  2. Nosce Sauton ha scritto un commento che mi è sparito (come si vede in una delle risposte che ho dato a Giuliana. Forse l’ho cancellato toccando per errore un tasto?). Gli volevo dire che l’ho apprezzato tantissimo e che sarei lieto di rispondere se avesse le gentilezza di ripeterlo.

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  3. Ho recuperato nella posta il commento di NOSCE SAUTON e lo riporto qui:
    “Quant’è inafferrabile l’emozione umana alle spiegazioni logiche…
    Alla fine, ci si può avvicinare solo attraverso la poesia.
    Sento trasparire il patimento del protagonista, capace di osservare e di cogliere, l’inafferrabilità della sua musa.”
    Grazie, Nosce Sauton. Con questo commento mi stai dicendo una cosa che io condivido in pieno. Chi come me scrive poesia, di qualunque altra cosa scriva, non può che farlo in poesia.
    Come ti dicevo sono d’accordo. Ma ogni tanto sento il bisogno di scrivere al suono della prosa. E così mi ritrovo a scrivere poesie in prosa ( nella speranza almeno che anche queste piacciano come i miei versi).

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  4. Paura dell’abbandono da un lato, desiderio di libertà e recupero di se stessi dall’altra. L’amore è l’arma di distruzione più potente: non solo nella relazione uomo donna. Il rapporto d’amore è spesso prevaricazione che porta a un perpetuo conflitto interiore nel soggetto prevaricato. Restare o lasciare?

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